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January 18, 2019

American Dream
Tijuana, Messico. Dicembre 2018
Fabio Bucciarelli per L’Espresso

Il sole che tramonta sul muro di confine dipinge il cielo con pennellate impressioniste creando un paesaggio distopico con dominanti rosse, immagine di una società futurista accattivante e allo stesso tempo spaventosa. Dopo centinaia di chilometri, nella Baja California il muro si tuffa nell’Oceano Pacifico fino a spezzare le onde, come volesse dividere anche loro nel punto più ad sud-ovest della frontiera fra Messico e Stati Uniti d’America. Una scritta a caratteri cubitali svetta dal promontorio sopra la spiaggia: “Tijuana: Aqui Empieza la Patria” (Tijuana: Qui Comincia la Patria). Forse un monito, sicuramente un paradosso considerando le migliaia di persone che ogni anno arrivano qui per lasciarsi il Messico alle spalle e dirigersi verso le scintillanti luci statunitensi. San Diego, Los Angeles e poi il sogno americano dei migranti centro-americani provenienti in gran parte dall’Honduras ma anche dal Salvador e dal Nicaragua che negli ultimi mesi hanno attraversato interi paesi fino a raggiungere la frontiera nord. Questa volta sono partiti in gruppo, il nuovo popolo dei migranti, in grandi carovane perché l’unione fa la forza e la solidarietà combatte i pericoli che si incontrano lungo il cammino. Ma ora a Tijuana finisce il loro viaggio e comincia l’odissea del passaggio al primo mondo.

Nelle ultime settimane ho ascoltato le speranze e documentato le paure di molte famiglie in fuga dalle ingiustizie, dalle violenze e dalle estorsioni dei pandilleros Honduregni, i famosi gruppi organizzati di banditi ed assassini tatuati.

Sabato 1 Dicembre. Ho conosciuto Mirna, Dariella, Xinia e Fabiola con al seguito i loro figli. Prima di incontrarle ho sentito le loro voci ed immaginato i capelli nero corvino arruffati sopra i loro visi attraverso il muro di confine lungo il Canyon del Matador. Il burrone che unisce la città di Tijuana con la spiaggia è diventato uno dei posti di transito preferiti dai migranti più intrepidi; qui non è ancora stata costruita la nuova barriera e le lamiere di metallo arrugginito che separano i due Stati sono alte poco più di due metri. Dall’altra parte, il territorio americano ed il filo spinato aggiunto recentemente dall’amministrazione Trump per rinforzare il confine nell’attesa del grande esodo.

Proprio in quei pochi metri di terreno fra le lamiere ed il metallo spiniforme è rimasta bloccata la nostra ‘famiglia honduregna’.

Nonostante la proposta di Trump del Novembre scorso di negare l’asilo a tutti coloro che attraversano la frontiera Messico-Stati Uniti illegalmente – bocciata e considerata discriminatoria dal giudice della corte distrettuale John S.Tigar – i migranti, una volta oltrepassato il confine, hanno il diritto di richiedere la protezione internazionale; devono quindi essere informati dei loro diritti, venire sottoposti a un controllo medico ed accompagnati al primo centro di accoglienza. Una recente inchiesta del Washington Post ha fatto emergere gravi mancanze di tutele e protezione operate da agenti del US Border Police, conclusasi con la morte per disidratazione di Jakelin una bambina guatemalteca di 7 anni.

Intrappolate quindi, le nostre donne vengono minacciate e costrette a tornare da dove sono venute dagli agenti della USBP: “Se passi il filo spinato e tua figlia si graffia ti metteremo in carcere e sarà peggio per te” mi confida Mirna, 43 anni, davanti alla telecamera dopo avermi racontato l’inferno dal quale è scappata con sua figlia di 10 anni, anche lei chiamata Mirna. Hanno lo stesso nome e respirano a tempo, come fosse l’una la continuazione dell’altra. Sono scappate dall’Honduras perché la mamma non riusciva più a pagare il pizzo alle gang locali, affronto che non è certo passato inosservato: le hanno ucciso il primo figlio di diciassette anni e la madre, strangolata. Poi hanno ucciso il suo compagno, prima di ricevere minacce dirette e ventiquattro ore per raccogliere la sua vita, metterla in uno zainetto e lasciare il suo paese nel quale, giura, non tornerà mai più. Sogna l’America Mirna, senza sapere che proprio ora, dall’altra parte del confine, potrebbe chiedere l’asilo senza dovere ritornare in Messico. Costeggiando il muro lungo il terreno scosceso, cerco disperatamente una fessura fra le lamiere dove introdurre la mia macchina fotografica per dare un viso a quelle voci dal forte accento onduregno e per creare una memoria storica di quello che sta succedendo. Solo riguardando le fotografie scattate riesco a riappropriarmi del tempo trascorso in quel burrone prima di vedere uscire in fila indiana Schneider, Eric e Kevin seguiti dalle loro madri, diventate piccole a sufficienza per entrare nel buco e riuscire dall’altra parte del confine.

Da questo momento sono trascorsi dieci giorni che ho passato con Dariella e suo figlio Kevin, Fabiola e Xinia ed i piccoli Schneider e Eric, Ashely, Oliver le due Mirna. Solo in seguito ho scoperto che Ashley e Oliver erano partiti dall’Honduras con l’amica Xinia perchè le loro madri, arrivate in Messico con la prima carovana, erano già riuscite ad entrare in America, in Kentucky per l’esattezza.

Una volta tornata indietro, la famiglia onduregna è stata intercettata dalla polizia di frontiera messicana e accompagnata al Barretal, una vecchia discoteca trasformata nel nuovo centro di accoglienza per i migranti di Tijuana: un fatiscente edifico in un quartiere periferico della città, lontano dal muro di frontiera e dagli occhi della gente. Nei primi giorni la carovana era ospitata nel campo sportivo Benito Juarez nel centro della città, ma dopo l’inondazione causata dai forti temporali è stata trasferita in massa al Barretal. Quando sono arrivate Mirna e le altre donne c’era ancora poca gente; hanno così potuto scegliere un angolo di pavimento coperto dove accasciarsi con i loro materassi non lontano dalla distribuzione dei vestiti e dai bagni.

Le giornate si susseguono rimettendo insieme i frammenti di vite sgretolate, cercando di contattare i parenti più o meno lontani e pianificando la prossima fuga. Nonostante abbiano tutte ricevuto il numero della lista d’attesa per la richiesta ufficiale di asilo, le donne non vogliono aspettare il loro turno: “Ci prendono in giro, passano dalle 8 alle 12 persone al giorno. Abbiamo il numero 1476 ed ora siamo al 1220, non possiamo aspettare tutto questo tempo”. Secondo la U.S. Costum and Border Protection del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti, il numero di migranti privi di documenti e fermati dagli agenti della polizia di frontiera lungo il confine sud-occidentale nel Novembre del 2018 è di 51859, molto maggiore rispetto ai 29.058 dello stesso mese dell’anno precedente.

Passano pochi giorni quando, sotto un diluvio biblico, Dariella saluta le compagne ed insieme a un gruppo di nuovi amici incontrati al Barretal decide di riprovare ad attraversare il confine, ma questa volta dalla spiaggia: “alli se puede” (qui si può) mi sussurra sotto lo sgualcito impermeabile blu elettrico, sempre con il figlio al seguito. E’ pomeriggio, ma sembra notte inoltrata a Tijuana quando raggiungiamo la spiaggia: qui per una ventina di metri il muro è di nuovo basso, formato da quelle lamiere marrone scuro invecchiato, affondate in un rivolo d’acqua così intenso da doversi aggrappare ai pilastri di frontiera per raggiunge il punto di fuga. Non riuscivo a comprendere come potessero avere la forza di andare avanti per provare a scavalcare il confine e sfuggire alla polizia americana. Ma a Dariella questo non interessava più, voleva solo mettere entrambi i piedi nel nuovo mondo e, questa volta, consegnarsi volontariamente agli agenti americani. Avrebbe poi richiesto l’asilo per lei e per il piccolo Kevin. Ma sfortunatamente, dopo pochi minuti, arriva sul posto la USBP per infrangere ancora una volta le loro speranze. Uno alla volta allora si torna indietro, guadando nuovamente il rivolo diventato ora un fiume: “Ya vendremos otro dia” (torneremo un altro giorno). Dariella sa che riproverà ad attraversare il confine e che presto riuscirà ad entrare negli Stati Uniti. 

Le ore trascorrono sfumate al Barretal, diventato sempre più simile ad una comunità organizzata nata dal caos: come spesso accade nei contesti di emergenza umanitaria, con il passare del tempo, cresce la burocrazia e la volontà di controllo. Adesso tutti i migranti hanno un tesserino che è molto simile a quello dei giornalisti e a quello delle organizzazioni non governative, giunte in massa con le loro bandiere. Questi ultimi possono però sfoggiare sul badge il loro ruolo di appartenenza al posto della parola “Migrant”.

Lunedì 10 Dicembre. Ancora tutte insieme, le donne decidono di mettersi in cammino ma questa volta, di pagare un coyote (smuggler o trafficante di esseri umani) per provare a riattraversare il confine nei pressi di Tijuana. E’ stata una decisione presa in pochi minuti, spinta forse dalla stanchezza o dalla frustrazione dei passaggi mancati. Ora però non posso seguirle, le mie macchine fotografiche non sono gradite: documentare i punti di accesso clandestini smonterebbe il loro business, diventato sempre più redditizio per la mafia locale. Il passaggio assicurato con consegna alle forze dell’ordine e conseguente richiesta d’asilo costa 250 USD per gli adulti e 150 USD per i bambini.

Rimango quindi in attesa di una loro chiamata che però tarda ad arrivare. Nei giorni successivi continuo a documentare il grande esodo e l’inchiesta sui comportamenti degli agenti di Frontiera Americana. Ho quindi assistito, ahimè, a nuove minacce ed intimidazioni, quando un poliziotto introduce il braccio ed il suo telefono al di qua del muro, per fotografare i migranti ed i giornalisti farneticando di una complicità immaginaria. Ancora una volta il 14 Dicembre mentre fotografo un nuovo intento di attraversamento, ho ripreso violenze fisiche ed arresti operati dagli agenti della USBP verso i migranti entrati illegalmente in territorio americano.

Atteggiamenti come quelli descritti, oltre ad essere una prassi diffusa rappresentano il paradosso della legalità: “è illegale da parte degli agenti americani demotivare e minacciare i migranti riguardo la richiesta di asilo, una volta calpestato il suolo americano” dichiara ai microfoni di Yahoo News Jadwat del American Civil Liberties Union (ACLU), un’organizzazione centenaria che lavora per difendere e preservare i diritti e le libertà garantite dalla costituzione e dalla legge degli Stati Uniti.

Passano i giorni, ma non arriva nessuna notizia dalla ‘famiglia onduregna’. Sapevo che avrebbero sequestrato loro il telefono, ma allo stesso tempo ero sicuro che appena tornate in possesso, si sarebbero fatte vive. Così al quarto giorno, ricevo un messaggio, una fotografia di Dariella che sorridente, lisciati i capelli, mi manda un dettaglio del braccialetto elettronico che deve indossare per sei mesi per non essere persa di vista. E poi ancora “Siamo a San Diego e fra poco ci muoveremo verso Los Angeles. Grazie a Dio, siamo negli Stati Uniti”. L’enfasi del messaggio vocale spezza la mia paura e il timore che qualcosa fosse andato storto finalmente scompare.

Adesso Il telefono non smette di squillare, i messaggi e fotografie si susseguono con ritmo frenetico, come volessero rompere quel muro di omertà per urlare la libertà. Dariella Mirna Xinia e Fabiola sanno che sono solo all’inizio della loro nuova vita e che non sarà facile, ma per ora il timore di trascorrere le feste nel campo di accoglienza di Tijuana è scomparso per lasciare spazio al Natale americano.

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