L’Odore della Guerra review | La Stampa
March 20, 2012
The book review of “L’Odore della Guerra”/”The Smell of the War” written by the special correspondant Domenico Quirico, La Stampa Newspaper.
La guerra: l’hai letta sui libri e sui giornali. Ma altra cosa è una guerra che si vede, si ode, si tocca, che non possiamo più immaginare o colorire secondo l’umor nostro. Anzi di più: la guerra che fiuti, L’Odore della guerra, come ha sintetizzato Fabio Bucciarelli nella sua esposizione. Perché l’olfatto è davvero il più forte dei sensi, si annusano le cose prima di vederle.
La guerra dunque, un’altra guerra da raccontare, l’ultima di un elenco innumerevole, dai tempi in cui Omero, rubando il mestiere agli dei, posò lo sguardo sulla piana insanguinata di Ilio. E vi trovò, stretti insieme, odio e pietà, l’uomo insomma. Una guerra civile, quella di Libia, gli otto mesi in cui si è ramificata con un andamento di epidemia, di alluvione, senza logica. La peggiore perché fratricida, la più barbara, che non ci consente distinzioni; come un vento irresistibile ammucchia da una parte e dall’altra, separati dalle irreparabili uccisioni, massacri, assassini, violazioni, rapine, il complesso delle popolazioni.
Fabio Bucciarelli è un ingegnere trentenne che si è innamorato della fotografia, ora scatta per le grandi agenzie e i quotidiani del mondo intero, da La Stampa a Le Monde. Sa di far male, di graffiare, la mente ed il cuore, con il suo bianco e nero temerario. Non ne ha rimorso o timore. Non per cupidigia o cinismo: ma perché quella è una parte della terapia, trovar cioè quasi l’eco del dolore umano prima che esso diventi urlo ghigno rivolta disperazione ferocia; e quello perpetuo e uguale, sepolto nel cuore di tutti. Ha scelto, fin dagli albori dell’insurrezione, a Bengasi, gli insorgenti e i ribelli, si è accodato impavido al primo avventuroso andamento dei pochissimo contro i moltissimi. I tempi di Brega e Ras Lanuf, della guerra del deserto e di quell’incantato litorale. La racconta soprattutto con i volti dei ribelli e le loro armi umili, annegate nella luce ardente dell’estate libica. Sì, l’uomo è forte se potè durare la battaglia libica. Bisogna andare con l’esposizione di Bucciarelli in quei luoghi oggi e ripensare la stagione sciaguarata; trovare nel silenzio incerto e sospeso come un rimorso a scaldarti a questo sole e a questa pace.
Poi nell’esposizione irrompono le immagini e le storie degli altri, dei vinti: per noi è carta, per loro carne viva. Finora soddisfatti, noi, l’Occidente, di esserci allineati, con lo scomodo mediocre di qualche bomba gettata alla rinfusa, qua e là, dalla parte dei buoni e dei giusti (che sono sempre i vincitori). Bello ma falso. Dobbiamo affrontarle, quelle immagini, nel confronto atroce, faccia per faccia, gesto per gesto: violenza viltà paura fame stanchezza infinita nei volti dei catturati, dei prigionieri chiusi in gabbia come bestie, nell’attesa disperata della punizione. E per quelli che sono fuggiti, lì sono rimaste le loro donne, mogli madri sorelle, impietrite dal rimorso e dallo spavento: come le tre strazianti Maddalene di Tripoli, legate ai “mercenari”, che si ribellano con un urlo infinito: son carne loro, i colpevoli, possono staccarsene, gettarli tra i rifiuti?
Alla fine dell’esposizione, la foto: il cadavere di Gheddafi, l’immagine che ha reso Bucciarelli celebre nel mondo. La prova della fine, la profanazione oscenamente liberatoria, perché solo in quel modo, mettendosi in fila per spiare quel cadavere di un vecchio straziato, i libici tutti, quelli che avevano vinto e quelli che avevano semplicemente atteso, divincolandosi a fatica dalla tragedia, potevano liberarsi di lui, della sua presenza che li occupava e li soffocava da 40 anni. E quella foto, in un lampo, ci smarrisce, illusi di poter vedere così chiaro fino all’avvenire, anche in quel groviglio di bande, di minacce, di speranze, di inganni, di cupidigie sempre più fitto.
La guerra dunque, un’altra guerra da raccontare, l’ultima di un elenco innumerevole, dai tempi in cui Omero, rubando il mestiere agli dei, posò lo sguardo sulla piana insanguinata di Ilio. E vi trovò, stretti insieme, odio e pietà, l’uomo insomma. Una guerra civile, quella di Libia, gli otto mesi in cui si è ramificata con un andamento di epidemia, di alluvione, senza logica. La peggiore perché fratricida, la più barbara, che non ci consente distinzioni; come un vento irresistibile ammucchia da una parte e dall’altra, separati dalle irreparabili uccisioni, massacri, assassini, violazioni, rapine, il complesso delle popolazioni.
Fabio Bucciarelli è un ingegnere trentenne che si è innamorato della fotografia, ora scatta per le grandi agenzie e i quotidiani del mondo intero, da La Stampa a Le Monde. Sa di far male, di graffiare, la mente ed il cuore, con il suo bianco e nero temerario. Non ne ha rimorso o timore. Non per cupidigia o cinismo: ma perché quella è una parte della terapia, trovar cioè quasi l’eco del dolore umano prima che esso diventi urlo ghigno rivolta disperazione ferocia; e quello perpetuo e uguale, sepolto nel cuore di tutti. Ha scelto, fin dagli albori dell’insurrezione, a Bengasi, gli insorgenti e i ribelli, si è accodato impavido al primo avventuroso andamento dei pochissimo contro i moltissimi. I tempi di Brega e Ras Lanuf, della guerra del deserto e di quell’incantato litorale. La racconta soprattutto con i volti dei ribelli e le loro armi umili, annegate nella luce ardente dell’estate libica. Sì, l’uomo è forte se potè durare la battaglia libica. Bisogna andare con l’esposizione di Bucciarelli in quei luoghi oggi e ripensare la stagione sciaguarata; trovare nel silenzio incerto e sospeso come un rimorso a scaldarti a questo sole e a questa pace.
Poi nell’esposizione irrompono le immagini e le storie degli altri, dei vinti: per noi è carta, per loro carne viva. Finora soddisfatti, noi, l’Occidente, di esserci allineati, con lo scomodo mediocre di qualche bomba gettata alla rinfusa, qua e là, dalla parte dei buoni e dei giusti (che sono sempre i vincitori). Bello ma falso. Dobbiamo affrontarle, quelle immagini, nel confronto atroce, faccia per faccia, gesto per gesto: violenza viltà paura fame stanchezza infinita nei volti dei catturati, dei prigionieri chiusi in gabbia come bestie, nell’attesa disperata della punizione. E per quelli che sono fuggiti, lì sono rimaste le loro donne, mogli madri sorelle, impietrite dal rimorso e dallo spavento: come le tre strazianti Maddalene di Tripoli, legate ai “mercenari”, che si ribellano con un urlo infinito: son carne loro, i colpevoli, possono staccarsene, gettarli tra i rifiuti?
Alla fine dell’esposizione, la foto: il cadavere di Gheddafi, l’immagine che ha reso Bucciarelli celebre nel mondo. La prova della fine, la profanazione oscenamente liberatoria, perché solo in quel modo, mettendosi in fila per spiare quel cadavere di un vecchio straziato, i libici tutti, quelli che avevano vinto e quelli che avevano semplicemente atteso, divincolandosi a fatica dalla tragedia, potevano liberarsi di lui, della sua presenza che li occupava e li soffocava da 40 anni. E quella foto, in un lampo, ci smarrisce, illusi di poter vedere così chiaro fino all’avvenire, anche in quel groviglio di bande, di minacce, di speranze, di inganni, di cupidigie sempre più fitto.