Interview on Maxim
January 8, 2019
La Verità dello Sguardo
| Intervista di Raffaele Marino a Fabio Bucciarelli |
Il fotografo costringe il mondo all’interno del suo scatto e gli individui credono molto di più all’immagine fotografica che alla realtà. “Mandami una foto” è la richiesta più usata per provare che quel che si sta vivendo è verità. Perché il mondo si fa conoscere alle persone attraverso la fotografia divenuta a sua volta il linguaggio più diretto di quell’enorme, generalizzata voglia di mostrarsi.
E anche se la foto è l’immagine esatta di quel che accade in quel preciso momento, pensiamo a un selfie, la fotografia ha in sé l’ipocrisia della scena che non ha le dimensioni del reale, perché il fotografo imprime un istante senza farci sentire il suo profumo, il suo freddo o il suo caldo, i suoi rumori e la sua musica. Eppure, anche se mancano gli stimoli che possono soddisfare tutti i sensi umani, l’ipocrisia non è nella fotografia, ma in colui che la guarda. È nell’individuo che ci mette dentro tutto quello che la foto non ha, trasformando quel selfie nella realtà che lui vuole proiettare in quell’immagine, una realtà che, perché no, è fatta di una musica dolce, di un profumo di mandorle e un tepore estivo.
L’ipocrisia è anche nelle persone convinte che è tutto finto, che il fotografo ha composto ad arte quello scatto per alterare la realtà, che è “tutto un complotto”. Il fascino dell’arte della fotografia è proprio in questa contraddizione, per alcuni la foto è il viaggio che ci fa sognare una vita diversa; ma allo steso tempo, per altri, può diventare un veicolo per dimostrare che il mondo è uno schifo!
Quanto quanto può essere ipocrita la fotografia e il mondo che rappresenta attraverso gli scatti, lo chiediamo a Fabio Bucciarelli, fotografo italiano tra i più premiati a livello internazionale, vincitore del Robert Capa Gold Medal, del World Press Photo, del World Report Award, del Picture of the Year International, fino all’ultimo Days Japan International Photojournalism Award, solo per citarne alcuni.
Le sue foto raccontano gli uomini e donne che vivono le sofferenze della guerra, le umiliazioni vissute da tante persone che dai conflitti fuggono via diventando migranti. È stato il primo a fotografare il cadavere di Gheddafi dentro una casa alle porte di Misurata, una foto che ha fatto il giro del mondo insieme con quelle scattate in Siria, Iraq, Sud Sudan, Libia e anche a L’Aquila, dopo il disastroso terremoto.
Fabio: una laurea in ingegneria e un master, poi nel 2009 inizia una nuova fase della tua vita, un atto di rifiuto verso quel che eri o hai solo seguito una passione?
È stato più che altro aggiungere un ulteriore livello di complessità alla mia vita, quello che facevo rispecchiava un’esistenza organizzata secondo i canoni classici della società, ma non era funzionale per me e ho trovato nella fotografia una chiave di lettura del mondo che ho intorno; quindi ho deciso di mettermi in gioco, di lasciare la vita da ingegnere e di mettermi a fotografare.
Sono passati due, tre anni prima di diventare freelance e occuparmi di crisi umanitarie e di conflitto, da lì in poi la storia la sai… È stata una scelta dovuta ad una consapevolezza acquisita durante il periodo del mio lavoro da ingegnere, Socrate diceva “gnōthi sautón”, conosci te stesso per sapere dove vuoi andare e cosa vuoi fare, ho imparato a leggere me stesso e per farlo bisogna avere gli strumenti, come essere capace di fare analisi personale e del mondo che ti circonda.
Quanto può essere ipocrita una foto?
Innanzitutto terrei a distinguere tra fotogiornalismo e fotografia come strumento per un’espressione personale d’arte. L’importanza del fotogiornalismo è il messaggio che vuole mostrare, è un documento che descrivere la realtà, quello che succede, nel mio caso la mancanza di diritti umani. Nel secondo caso il messaggio molte volte è personale e la fotografia spesso – come nella pop art – è strumento di un pensiero artistico; e su quel tipo di immagine i confini sono molto più blandi, perché si mostra di più se stesso che il mondo intorno. In entrambi i casi non possiamo parlare di ipocrisia della fotografia, eventualmente la possiamo trovare quando ci rivolgiamo al bacino di utenza di quelle immagini, a coloro che le vedranno. Il fotogiornalismo si basa sulla ricerca della verità e, nelle zone di guerra soggette all’alterazione della propaganda che tende a nascondere ciò che è scomodo, è complicato riportare la realtà per quella che è. Proviamo ad immaginare quanto poco avremmo saputo del conflitto Siriano, che va avanti da più di sette anni, senza fotografi o videomaker che hanno documentato i fatti di quel conflitto. L’ipocrisia per me è non mostrare la verità di quei luoghi tenendo bendato il resto del mondo davanti alla realtà della guerra. Non è la fotografia ad essere ipocrita, ma l’uso può esserlo e il fotogiornalismo con la sua ricerca continua delle fonti è l’opposto dell’ipocrisia, vuole rompere questo muro di omertà. Il suo impiego a livello professionale diventa fondamentale oggi per contrastare questa marea informativa che agevola la divulgazione delle fake news.
E un fotografo?
Il fotogiornalismo si basa sull’approccio etico del fotografo ed è fondamentale insistere su questa professionalità in questo momento di marea mediatica dove è valido tutto, è importante che non si venga meno a questa credibilità che si fonda su uno studio approfondito della cultura che scegliamo di documentare. Oltre l tempo passato sul campo.. È naturale che una foto nasca dall’inquadratura operata dal fotografo al momento dello scatto ed è possibile che quelle immagini possano essere usate a fini i propaganda; ma il professionista sa che esiste un codice etico e l’etica del fotogiornalista è fondamentale. Photoshop nel fotogiornalismo e nel documentarismo può aiutare con la luce, può cambiare il contrasto e il colore, ma non deve alterare il contenuto; altrimenti parliamo di altro tipo di fotografia.
Oltre alla “sana paura”, cosa porti con te quando parti per andare in zona di guerra?
Innanzitutto la curiosità e l’interesse di conoscere una situazione a me più o meno ignota e la speranza di saperla leggere, di entrare in empatia con lei per poterla documentare e saperla raccontare alle persone che non l’hanno vista. La speranza di entrare in contatto con un’altra cultura e cercare di capire le cause ed effetti che le mie foto vanno a documentare.
E al ritorno?
Le storie vissute. I conflitti, le realtà sperimentate diventano parte di te, entrano a far parte del tuo essere cambiando il tuo pensiero. Quando vivi da vicino ingiustizie come quella della mancata accoglienza è normale che queste vadano ad incidere sul tuo pensiero politico e sociale. Ad ogni viaggio mi riporto indietro tutte queste esperienze che alla fine mi formano prima di tutto come uomo poi come fotografo. Insomma vedere con i propri occhi ciò che accade durante le migrazioni, ti fa abbandonare immediatamente l’idea di dire “prima gli italiani”.
Quanta ipocrisia hai visto nella guerra?
Nessuna, la guerra è proprio così come la vedi, l’ipocrisia sta nel non voler vedere la guerra, ed è un’ipocrisia della nostra parte del mondo che riesce a nascondere perfino la verità che in alcune zone del mondo la guerra c’è da sempre. L’ipocrisia non è nel conflitto ma nel volerlo ignorare.
E quanta nella serenità promessa a coloro che scappavano dal conflitto?
Nelle zone di conflitto sociale, non solo bellico, l’ipocrisia è quella delle promesse non mantenute o dell’accoglienza alterata, come nel caso del Cara di Mineo che vengono messi sotto inchiesta per infiltrazioni mafiose. La gente che viaggia per scappare dalla guerra non comprende nell’immediato questo tipo di ipocrisia, è concentrata a sopravvivere, ma una volta in salvo dal pericolo della guerra comincia a capire meglio le intenzioni dei paesi ospitanti. Molte persone che ho incontrato nei flussi migratori preferivano dirigersi nel nord Europa e non fermarsi in Italia perché avevano compreso l’ipocrisia del messaggio politico del nostro paese. Pensiamo all’allarmismo sull’immigrazione, è stato creato a fini elettorali, una strumentalizzazione che vuole nascondere la realtà.
Prossimo progetto?
Sto lavorando su un progetto che racconta le ferite dell’Italia, una sorta di viaggio pasoliniano per mostrare con la fotografia lo stato del nostro paese in questo momento. Un impegno che grazie al fotogiornalismo spero possa abbattere il muro dell’ipocrisia e informare davvero le persone su dove il nostro paese sta andando.