HAITI on assignment FOR LA REPUBBLICA

July 25, 2024

“Non esiste futuro”, dicono nelle strade di Port-au-Prince, la capitale violentata dal Novecento con trent’anni di dittatura dei Duvalier e ora assediata dall’alleanza delle gang criminali. Arrivare vivi a sera non è scontato: in tre mesi nel paese 2.500 tra omicidi, sequestri e ferimenti

Testo di Fabio Tonacci, foto di Fabio Bucciarelli per Repubblica
Il LONG FORM completo è disponibile sul sito de La Repubblica

 

L’alba è il momento migliore per andare in cerca di cadaveri. Per un paio d’ore l’aria è respirabile e il sole dei Caraibi non ha ancora messo a cuocere il tappeto di spazzatura che fodera la città. I miasmi si sentono lo stesso, quelli non se ne vanno neppure di notte: è il fiato caldo di Port-au-Prince, che non permette di dimenticare neanche per un istante dove si è capitati. Un fazzoletto premuto sulla bocca e sul naso lo rende sopportabile, per un po’. L’orda umana dei senza casa dorme per terra, i carboni accesi durante il coprifuoco illuminano una donna che russa riversa in un canale di scolo, un vecchio che ha trovato posto nella carcassa di un’automobile, un bambino assopito dentro una carriola. Qualcuno di quei corpi ha un buco in testa e non si alzerà più. A Port-au-Prince la notte non porta buoni consigli, ma assassini.

Decisamente l’alba è il momento più adatto per recuperare gli scomparsi. Anche perché le zanzare infette di malaria e del virus della dengue pungono assai di meno a quest’ora, si svegliano tardi, come le gang. “Blancò, che ci fai in questo merdaio?”. I bianchi non passano inosservati. “Hai perso qualcuno?”. Qualcuno, non qualcosa: ad Haiti si perdono esseri umani come fossero mazzi di chiavi. Il merdaio in questione è una discarica a ridosso del recinto dell’aeroporto internazionale, quartiere Tabarre. Ce ne sono altre, in città, di necropoli a cielo aperto dove buttano la gente ammazzata, questa è la più nota. “Ogni mattina scopro sette, otto, a volte nove cadaveri nuovi. Integri durano poco perché se non li spolpano subito i cani o i maiali, gli diamo fuoco”, spiega Deronce, 29 anni, secco come un chiodo, un Virgilio sporco sbucato dal suo tugurio che si propone di accompagnare i visitatori nei meandri dell’immondizia.

Su una montagnola di stracci e copertoni abbrustoliti, pascolano capre malate e si muovono le ombre di genitori che hanno smarrito i figli. Una delle ombre è la cameriera Jocelyne Dory, 46 anni. Il suo Rony venerdì non è tornato a casa: pare sia stato catturato sulla via per l’aeroporto, non a caso ribattezzata kidnapping road, la strada dei sequestri. “Dal primo al tredici luglio solo sette casi di rapimenti”, diceva poco fa la voce del radiogiornale, con tono consolatorio. “Nello stesso periodo del 2023 erano stati 26”.

Per capire Haiti bisogna stracciare il contratto sociale, reinventare il concetto di incolumità e abituarsi a relativizzare: sette rapimenti in tredici giorni, a Port-au-prince, assomigliano a una buona notizia. 

 

La povera Jocelyne Dory rovista tra i rifiuti di un Paese fallito cercando pezzi del suo terzogenito. E’ la prassi: quando sparisce uno, la prima cosa da fare è setacciare le discariche-necropoli per sottrarre le spoglie a cani randagi affamati e uomini randagi muniti di benzina. E poi, solo poi, rivolgersi alla polizia. Deronce, il Virgilio della monnezza, suggerisce di ispezionare lungo un muro di laterizi sovrastato dal filo spinato. “Vai, blancò, vai a vedere…”. A terra, ai piedi del muro, si stende un ossario annerito da un rogo spento da poco. Si contano sette scatole craniche, quattro casse toraciche, decine di femori, omeri, metacarpi, denti ancora bianchi, colonne vertebrali. Non c’è modo di riconoscere a chi appartengano, ma di sicuro non sono stati uccisi qui. Si cammina sul pattume in precario equilibrio emotivo, prestando attenzione a non oltraggiare i morti senza nome. La scena è disturbante. “Sei sorpreso?”, ridacchia Caronte. “Sei ad Haiti, blancò…questa è l’isola dei pirati”.

L’isola che vive un giorno solo

Haiti vive un giorno solo. Un unico funesto, imprevedibile, sudato, giorno solo. Per come è ridotta quella che fu la più ricca delle colonie francesi, il domani è un orizzonte remoto, un traguardo lontano: arrivarci, a domani. “Non esiste futuro”, dicono a Port-au-Prince, la capitale violentata dal Novecento con tre decenni di dittatura dei Duvalier e ora assediata da due federazioni di bande rivali, la G9 di Jimmy Chérizier detto “Barbecue” e la Gpèp di Jean-Pierre Gabriel. Mesi fa si sono alleate in nome di una rivoluzione popolare contro l’ex primo ministro Ariel Henry che, a marzo, sono riuscite a far dimettere, attaccando l’aeroporto e fermandosi a cinquanta metri dal Palazzo Nazionale. La rivolta ha fatto centinaia di vittime e ha messo le famiglie di fronte al dilemma se lasciare i quartieri costieri o rintanarsi sine die in casa. Soprattutto, è servita ai malavitosi per perpetuare estorsioni, rapimenti, traffici.

Nei vicoli le esecuzioni sommarie sono fulminee e avvengono a cadenza quotidiana. Nessuno ha visto chi ha fatto fuoco, nessuno vuol sapere chi è l’uomo a terra. I vicini scavalcano i corpi insanguinati senza neanche rallentare il passo o deviare il cammino. Il testimone oculare – prima o poi ne spunta sempre uno – riferisce che “è stata la polizia”, perché “ha beccato uno fuori zona che non aveva i documenti e gli piantato un colpo in testa, presumendo non si sa da cosa che fosse membro di una gang”. Il caso non è ancora aperto che già è chiuso. Meglio non far domande e lasciare ai cani il lavoro del becchino.

Girando in motocicletta, unico mezzo di locomozione che consenta di districarsi tra macchine scassate, capre, carretti, galline, minibus tap tap, e ferrivecchi a due ruote su cui montano anche in cinque, si sente il tanfo della carne in putrefazione. Gli improvvisi acquazzoni tropicali gonfiano gore d’acqua lercia che scende dalla collina di Pétionville, talvolta trascinando con sé scheletri umani. “Non puoi guardare avanti, conta solo il presente, dall’aurora al crepuscolo, per trovare del cibo e arrivare vivo a sera», dicono a Port-au-Prince. […]