Libano per Il Fatto Quotidiano
November 13, 2024
Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano | Ottobre 18, 2024
dai villaggi di Khodor, Maaysra e Nabatieh
I villaggi sciiti portano il marchio della guerra, mentre il mondo guarda altrove.
In Libano le bombe non uccidono tutti. Uccidono solo alcuni, quelli “giusti” secondo gli israeliani. Cadono sui villaggi sciiti, da nord a sud, come comete della morte che non concedono tregua. Il villaggio di Maaysra si erge fiero e vulnerabile a 25 chilometri a nord di Beirut, fra le colline cristiane. Pochi giorni fa, la sua bellezza naturale è stata squarciata dai bombardamenti israeliani, insieme a 15 vite. Durante il funerale, gli imam si preparano a parlare a una folla tesa che attende da ore i corpi delle vittime per consegnarle ad Allah. Passano il tempo parlando fra di loro, in una stanza nel retro della moschea, forse cercando le parole giuste per il momento solenne. Davanti la porta d’entrata, le donne attendono, tutte rigorosamente nel loro niqab nero, le più giovani con le ciglia rifatte ma tutte senza trucco per non macchiare il viso di lacrime.
Prima Hamas, poi i palestinesi. Ora Hezbollah e una parte del popolo libanese. La campagna militare israeliana continua da oltre un anno, cambiando obiettivi e diffondendosi nella regione. A Gaza, i bombardamenti indiscriminati hanno trasformato le case piene di vita in scheletri vuoti, le strade sono scomparse diventando arterie da cui scorre il sangue. L’uccisione di Yahya Sinwar a Rafah, ha portato con sé non solo i plausi della comunità internazionale, ma anche una devastazione totale e la vita di quasi cinquantamila palestinesi: un prezzo troppo alto per considerarlo un successo militare. Ed è così che nascono i nuovi estremisti, i prossimi martiri: nel silenzio assordante delle vittime innocenti.
Per gli sciiti l’imamato, costituito da guide spirituali e politiche infallibili, discende da Ali e Fatima, la figlia di Maometto. Sono gli uomini più puri, i Sayyid, i legittimi discendenti del profeta. Per loro la successione non è solo una questione di sangue, è un legame sacro. Ogni anno, l’Ashura diventa il grido soffocato di un popolo che non vuole dimenticare. L’imam Hussein, morto a Kerbala, è il simbolo dell’eterna lotta contro l’ingiustizia. Un sacrificio che si rinnova, come una ferita che non si rimargina, dove il dolore diventa preghiera e resistenza: la tradizione vive nonostante il tempo e diventa più attuale che mai. Un’idea che si aggrappa all’anima per non scomparire, radicata nella storia d’un popolo che non ha mai voluto piegarsi. Così forte che nemmeno le bombe possono distruggerla, e per essa son pronti a dare la vita. Muoiono con dignità, sapendo che il sacrificio non è vano e che un giorno, forse, verrà ripagato.
Queste convinzioni, unite a parole infuocate di disprezzo verso gli Usa e Israele, danno forza alla folla, ora riunita davanti alle bare coperte con le bandiere libanesi. Gli imam hanno anche il compito di guidare la comunità sulla via giusta da percorrere: alle loro parole segue un boato, non quello delle esplosioni, ma il fragore dei pugni alzati verso cielo delle centinaia di persone accorse per rendere omaggio ai martiri. Un coro di voci si alza all’unisono, con le braccia tese in segno di resistenza. La folla si prepara a muoversi; i morti devono trovare pace nel cimitero. Ahmad, con il peso della bara sulle spalle, esprime la sua angoscia: “Ci vogliono uccidere tutti”, indicando i compagni di fede.
I villaggi cristiani restano intatti, mentre quelli sciiti, dalla valle della Beqaa al confine con Israele, affrontano lo stesso destino. La lotta di Hezbollah è vista come resistenza, non sempre come militanza; ma questo non fa più differenza, sono tutti vittime di questo nuovo conflitto che a oggi ha causato oltre 2.300 morti e più di un milione di sfollati.
Al sud di Beirut la sinfonia è la stessa, quella dei boati rapidi e imprevedibili degli ordigni sganciati da chilometri di distanza. Non un colpo, non due o tre, ma un ticchettio di profondi rimbombi, seguito da nuvole di fumo nero che si levano a forma di fungo.
Nabatieh ospita numerosi luoghi di culto e commemorazioni, profondamente legate a Imam Hussein. Le bombe sono cadute intorno alle 11, hanno colpito il centro della città e ucciso il sindaco Ahmed Kahil, insieme ad altri funzionari comunali. Sedici vite spezzate, oltre cinquanta feriti. Anche il mercato ottomano è stato raso al suolo, le case distrutte, i negozi ridotti in macerie, e ora il municipio, per cancellare ogni traccia di Stato. Nelle strade non c’è più nessuno, solo qualche soldato dell’esercito libanese, ambulanze che sfrecciano, vigili del fuoco che ripuliscono le macerie e gli affiliati del Partito di Dio. Loro non si possono fotografare, hanno paura di immediate ritorsioni, nemmeno quando sono gli unici a rimanere quando a circa un chilometro di distanza le esplosioni fanno nuovamente tremare l’aria. I militari sono i primi ad andare via, oramai rilegati al ruolo di volontari, senza armamenti né possibilità di lottare per il proprio paese.
I villaggi sciiti portano il marchio della guerra, mentre il mondo guarda altrove. Ora la paura è che per mancanza di spazio e di luoghi sicuri, i fedeli musulmani si possano muovere o nascondere nei quartieri e nei villaggi cristiani facendoli diventare così i nuovi possibili bersagli degli attacchi israeliani. È lo spettro di una guerra civile che si avvicina, eco di un passato che riemerge con i partiti cristiani di estrema destra – le Forze Libanesi e la Falange – saldamente ancorati ai loro ruoli di potere in un Libano lacerato e diviso.