dalla SIRIA per FATTO quotidiano
January 10, 2025
Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano
Adra, Homs – Siria | 19 Dicembre 2024
Sacco numero 7: Waqir Armene. Sacco numero 128: Sameer Al-Areed. Sacco numero 172: Sayf-Aden Abrly e così via. Una lunga lista di numeri e nomi è tutto ciò che rimane, insieme a femori, crani, e frammenti di ossa di uomini e di donne che una volta avevano una vita, una storia, una voce. Le pietre cominciano a essere rimosse e, con esse, il silenzio che per troppi anni ha coperto le fosse dove decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di persone, sono state sepolte durante la sanguinosa dittatura degli Assad.
Nelle campagne intorno a Damasco e lungo la strada che porta a Homs, ogni giorno si scoprono nuovi luoghi dell’orrore: campi trasformati in cimiteri per chi è stato considerato nemico del regime, per chi pensava in modo diverso o per chi era solo al posto sbagliato nel momento sbagliato. Non ci sono ancora scavi organizzati, né esperti a guidare le riesumazioni, ma le persone scavano comunque, cercando di dare un nome a quei resti e una risposta al proprio dolore; sapere è l’unico modo per chiudere una ferita che diversamente continua a sanguinare.
È la speranza che tiene vivo il tormento, perché la non conoscenza condanna a un’attesa infinita che non trova mai pace. Per Maryam Muhammad Al Qarwabi, questa attesa è durata dodici anni. Vive ad Afrin, ma appena è crollato il regime, ha lasciato tutto e si è precipitata a Damasco, decisa a trovare il figlio di cui non aveva più notizie da oltre un decennio. Per una settimana ha camminato tra prigioni e campi vuoti, cercando con le mani e con il cuore fino a oggi. “Sono triste perché non vedrò mai più mio figlio, ma sono felice perché la mia ricerca è finita e ora so che è nelle mani di Allah,” ha detto con una calma che nasconde l’abisso della sua sofferenza. La sua storia è come quella di tanti altri, è una tragedia che si ripete. Ogni persone che trova i resti di un suo caro scomparso chiude un cerchio, ma i cerchi aperti sono ancora tanti, e sotto questa terra, ci sono ancora numeri e nomi che aspettano di essere riportati alla luce.
Ma perché mai scrivere un numero e un nome su un sacco per poi seppellirlo insieme a tanti altri sotto metri di terra? È possibile che dietro questo gesto ci sia la fredda logica della contabilità delle morti, quel meccanismo burocratico che nessuna dittatura riesce a evitare, nemmeno nei suoi crimini più efferati. Forse i corpi di queste fosse comuni provengono da piccoli cimiteri, svuotati una volta raggiunta la capacità massima, oppure sono stati direttamente portati e sepolti qui, lontano da occhi indiscreti. Quello che è certo, però, è ciò che raccontano i testimoni, gli abitanti dei villaggi che fino a ieri erano territori inaccessibili, protetti da un muro di paura e dal controllo delle pedine del regime. Questi cittadini, ora liberi di parlare, ricordano i camion dell’esercito che arrivavano, carichi di corpi, per scaricare e nascondere le prove sotto terra. Un’operazione sistematica, un calcolo preciso per cancellare ogni traccia, per seppellire non solo i corpi, ma anche la verità che solo il tempo porterà a galla.
La strada si allunga verso nord, e con essa le domande che lentamente, sembrano trovare una risposte. Homs, “la capitale della rivoluzione”, epicentro del sogno di libertà e ribellione, un luogo dove le manifestazioni pacifiche vennero soffocate nel sangue, rimase stretta nella morsa di un assedio lungo due anni.
Un uomo passa in bicicletta tra le rovine del centro di Homs il 18 dicembre 2024. Homs, un tempo conosciuta come la capitale della rivoluzione, è stata il cuore della lotta per la libertà e il cambiamento in Siria.
Quando infine cadde sotto il controllo governativo, fu come se un’intera nazione avesse perso la speranza, perdendo il suo simbolo. La distruzione è ovunque, un promemoria doloroso di quanto è stato perso. Le case sventrate, le strade ridotte a macerie, i segni di una guerra che nessuno potrà mai dimenticare. Oggi Homs non guarda indietro: tutto è cambiato, il regime è stato cacciato, e con lui l’ombra che ha divorato il destino del paese. Migliaia di persone si sono riversate nella sue strade centrali, quei stessi luoghi che avevano visto urla e spari, sangue e lacrime. Oggi a Homs sventolano le bandiere come segno di un futuro che ancora non si riesce a immaginare, ma che inizia ad avere il sapore della libertà.