ASSALTO AI VILLAGGI ALAWITI PER IL FATTO
January 10, 2025
ASSALTO AI VILLAGGI AWALITI
Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano | Dicembre 17, 2024
Najha (Damasco) , Siria | Dicembre 17, 2024
Una, due, cinque, dieci colonne di fumo si alzano da Najha, a una decina di chilometri a sud-est di Damasco: l’aria è irrespirabile, satura dell’odore acre delle fiamme e di polvere bruciata. Il villaggio, noto per essere un bastione della comunità alawita, la stessa di Bashar al-Assad, è ora preda di centinaia di uomini e donne venuti dai villaggi vicini. Non è più un luogo, ma una ferita aperta, dove la rabbia si sfoga sui resti di un passato che a pochi giorni dalla nascita della nuova Siria, nessuno vuole più ricordare. Mobili, porte, specchi, comodini, sedie: tutto ciò che un tempo rendeva una casa abitabile viene caricato su furgoncini cigolanti, mentre ragazzini, con lo sguardo duro ma i corpi ancora troppo giovani, trascinano cisterne d’acqua vuote e materassi luridi per accatastarli in un campo improvvisato. Lì, tutto sarà smistato, barattato, portato via, dissolto nel nulla.
Najha, un tempo abitato dai collaboratori del governo di Assad, piccoli funzionari, militari e figure minori legate al potere, oggi è diventato il simbolo delle ritorsioni che si abbattono sulla nuova Siria ”libera”. Una libertà che non sa di giustizia, dove la vendetta si muove più rapida delle leggi. A pochi giorni dalla caduta della dittatura, mentre il paese festeggia, una voragine giuridica rimane aperta nel sistema, dove la legge è sostituita dalle armi e dal caos. “Il mio vicino è stato ucciso dai contadini di Tal Kharus solo per proteggere la sua terra”, racconta Maher, mentre il sole cala e i volti diventano ombre indistinte. La sera prima che il regime collassasse, gli abitanti di Najha sapevano che il loro collaborazionismo li avrebbe condannati per sempre. Non hanno aspettato che la giustizia – o la vendetta – li raggiungesse, ma sono scappati prima, lasciandosi tutto alle spalle, un intero villaggio abbandonato in una fuga verso la salvezza.
L’anarchia del saccheggio viene squarciato dalle raffiche dei colpi di Kalashnikov, esplosi dai miliziani di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), la coalizione sunnita islamica nata dall’ex filiale di al-Qaida, Jabhat al-Nusrah che ha preso il controllo del paese con una marcia durata dieci giorni e terminata con la fuga del presidente in Russia. Arrivati per imporre la loro versione di legalità, i miliziani accorsi, sparano ad altezza uomo per sedare il disordine. Non importa loro chi cade o chi sopravvive: ciò che conta è affermare il potere delle armi. Armi contro armi, perché tra i beni saccheggiati nelle case depredate ci sono anche fucili e bombe a mano, ora usati dai ladri in uno scontro improvvisato. Testimonianze raccolte sul posto parlano di sette feriti e un morto, vittime di una violenza dove la giustizia si riduce a pretesto e il disordine diventa la vera certezza. Ci si muove fra le case e tra i buchi nei muri, in un labirinto che ricorda Aleppo nel 2012 quando la guerriglia dei ribelli ridisegnava la geografia della città. Le donne alzano le mani in segno di resa sperando che basti per non diventare bersagli, mentre gli uomini continuano a riempire i le braccia con ciò che resta. Una donna con sua figlia stretta al petto si rifugia nel portone di una casa, osservando il combattimento che infuria davanti a loro: non è il primo scontro a cui assiste, e con ogni probabilità non sarà l’ultimo
Poco distante, un uomo viene fermato e perquisito. Gli trovano un coltello nascosto tra i vestiti, forse per difendersi, forse per attaccare; dopo un controllo rapido lo lasciano andare, i miliziani non hanno tempo da perdere. Il boato di una bomba a mano fa tremare le pareti, la gente si disperde ma lo scontro continua. Nei palazzi, i contadini combattenti si rifugiano nei corridoi, correndo freneticamente verso i piani alti, cercando una via di fuga, mentre un comando degli HTS li segue imbracciando i fucili. Li trovano, li accerchiano, e li costringono a inginocchiarsi. Seduti in un androne, con gli occhi sbarrati e il respiro corto, sono come animali in trappola. Sono stanchi, sporchi ma non si sentono colpevoli, stavano solamente rubando nelle case rimaste vuote dei nemici scappati. Si chiedono: cosa abbiamo fatto di male?
Una storia che diventa il simbolo di un paese diviso da tredici anni di conflitto civile, pieno di rancore e di fratture tra le sue minoranze, con il peso di una dittatura che ha lasciato cicatrici profonde. Chiunque prenderà il potere in Siria dovrà fare i conti con questi focolai e divisioni. Sarà lì che si vedrà davvero le capacità del nuovo esecutivo: se sarà in grado di governare o se, come i suoi predecessori, finirà per alimentare altre divisioni e nuove violenza fra i vicini di casa.