SIRIA ANNO ZERO PER IL FATTO
January 10, 2025
SIRIA ANNO ZERO – la rabbia e la memoria: la libertà sà di sangue
Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano | Dicembre, 13 2024
Damasco, Siria | 13 Dicembre 2024.
Che sapore ha la libertà? Una domanda apparentemente semplice, ma di difficile risposta. Quando arriva, dopo così tanto tempo, dopo un’attesa infinita, può accadere che non la si riconosca subito. La libertà non si presenta mai da sola. Porta con sé un corteo di sentimenti che si urtano, si scontrano, si confondono. La felicità si mescola al dolore per chi non c’è più, mentre la paura sussurra che tutto questo potrebbe finire presto.
In Siria, quell’attesa è stata lunga, cinquantatré anni di silenzio. Cinquantatré anni di repressione di un regime che ha trasformato il paese in una prigione. Tutto comincia nel 1970, quando Hafez al-Assad prende il potere con un colpo di stato. Da allora, il suo partito, Ba’ath, ha stretto la Siria in una morsa di ferro, costruita sulla paura e sul sangue.
Oggi la libertà ha un nome: Mazen al-Hamada. Noto attivista siriano, Mazen, è stato torturato e ucciso nella prigione di Sednaya, il mattatoio di Damasco dove gli uomini diventano numeri e i numeri diventano cadaveri fatti a pezzi e poi disciolti nell’acido. Migliaia di persone lungo le strade della capitale urlano il suo nome, Mazen! Mazen! come se quelle urla potessero liberarlo, per l’ultima volta, e consegnarlo direttamente nelle mani di Allah.
La sua storia è la storia del suo paese, che comincia nel 2011, con il sogno della rivoluzione. Incarcerato più volte per le sue idee, Mazen, viene rilasciato nel 2014, quando fugge in Olanda con le costole rotte, le cicatrici delle sigarette sulla pelle, i ricordi delle torture e delle violenze inflitte dai suoi aguzzini. Nel al 2020 ritorna in Siria: il regime gli aveva promesso l’incolumità; una promessa fatta di menzogne.
Ora Mazen che non c’è più, al suo funerale le lacrime di dolore si mescolano con quelle di gioia per la fine del regime. Anche le bandiere che sventolano sono cambiate: la terza stella torna a splendere, aggiunta dai ribelli tredici anni fa, ed il rosso del sangue è diventato un verde speranza. Una speranza che per la Siria diventa una condanna a non smettere mai di ricordare, anche quando il dolore sembra insopportabile.
Abdel Kada, di Homs sa bene cosa vuole dire, non lo ha mai dimenticato durante questi anni, quando nel 2012 suo padre è scomparso per protestare contro il regime. Accovacciato in una stanza della prigione Sednaya, cerca fra i documenti diventati carta straccia il nome di suo padre Abed, o qualcosa che possa riportargli alla mente i ricordi sbiaditi. Come Abed, sono decine di migliaia le persone scomparse una volta solcato questo ingresso: c’è chi dice centomila, chi centocinquanta mila o duecentomila. Nessuno lo sa con certezza e mai lo saprà. E’ impossibile riuscire a risalire al numero reale della gente scomparsa. E’ proprio per questo che da giorni, un fiume di persone venute da tutto il paese cerca qui i propri cari. Perché tuo padre è stato arrestato Abdel? “Era un dissidente politico”. La sua voce è un suono carico di rabbia e rassegnazione. “E’ scomparso dodici anni fa. Da allora non l’ho più rivisto”. Il rumore del martello pneumatico si fa sempre più forte e le parole si perdono nel frastuono degli uomini che scavano il cemento per cercare i superstiti nascosti nel ventre della prigione che sa ancora di morte.
I massacri, le ingiustizie, le atrocità commesse dal regime emergono lentamente. Come ferite che non si rimarginano, ma si aprono, una dopo l’altra, giorno dopo giorno. E ogni nuova scoperta è un nuovo taglio che non cicatrizza, come la notizia del ritrovamento di una fossa comune nei pressi della capitale. Corpi gettati nella terra senza un nome, descrivono la tirannia di un popolo soffocato per decenni. In Siria la libertà si paga con il sangue.
Con i fazzoletti premuti sul naso per non sentire l’odore della morte, le persone sfilano davanti ai cadaveri dei 35 corpi accatastati nella camera mortuaria e nei corridoi dell’ospedale Mujtahid di Damasco. Corpi scheletrici che portano evidenti segni di tortura: a un uomo è stato cavato un occhio ad un altro strappati i denti, altri portano segni di bruciature e di catene. Le donne piangono, muovendosi lentamente come volessero rispettare chi non c’è più, mentre i bambini alzano i lenzuoli che provano a nascondere quello che nessuno dovrebbe mai vedere. Un padre urla e indica un uomo a terra, proprio quello senza l’occhio. “E’ mio figlio” ma nemmeno lui ha il coraggio di rimanere per pregare la sua anima.