Il Volto del Covid-19 per La Repubblica

Italy | February 2021

Il volto del Covid-19

Fabio Bucciarelli per La Repubblica

Ci sono anni che più di altri rimangono nella nostra memoria, cambiano le nostre abitudini e segnano il corso della Storia. Anni che hanno scritto il nostro passato, condizionandone inevitabilmente il futuro. Il 2020 è sicuramente uno di questi. Definisce un tempo che oggi riconosciamo con fatica e che prima non avremmo mai immaginato. È uno spartiacque fra quello che è stato e l’incertezza di quello che sarà. Nel 2020, persino le coordinate con cui convenzionalmente si scandisce il tempo sono state alterate. Le settimane e i mesi sono stati sostituiti dai Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dpcm) che hanno sancito nuove libertà e norme comportamentali. Come una maledizione, esattamente cento anni dopo l’influenza spagnola con le sue decine di milioni di vittime, il Covid-19 si è diffuso in tutto il mondo, scegliendo l’Italia come laboratorio globale del contagio.

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L’avvento dell’epidemia, presto diventata pandemia, ha trovato nella penisola il suo terreno più fertile, contagiando ad oggi più di 2,7 milioni di persone e causando oltre novantamila vittime. Solamente a marzo però, quando la prima ondata ci ha travolto e quotidianamente la Protezione Civile annunciava in televisione il bollettino dei contagiati e delle vittime, abbiamo realizzato l’entità della crisi, pur non comprendendone il volto. In quel 2020, come fotogiornalista, una delle prime domande che mi sono posto è stata: qual è il volto del Covid-19? E nel guardarmi intorno, mi sono sorpreso, sospeso nel cercare una risposta. I siti internet e i giornali pubblicavano immagini di spazi vuoti, piazze deserte e di acqua pulita a Venezia. Molte delle fotografie ritraevano persone sconosciute, catturate a camminare con la mascherina sul volto in città fantasma.

Ho passato questi ultimi dieci anni della mia vita professionale documentando guerre, rivoluzioni e violazioni dei diritti umani in molti Paesi in aree di conflitto. Ho assistito alla caduta di regimi totalitari, a esodi planetari e bombardamenti indiscriminati, provando sempre a riportare indietro una testimonianza umana, per non dimenticare. Ed ora che nel mio Paese si stava consumando la più grande emergenza della sua recente storia, non sapevo come approcciarmi. Sapevo però quello che la fotografia è capace di fare, la sua dote unica di informare e allo stesso tempo di trasmettere emozioni immediate e di provocare una reazione che, se si è fortunati, è collettiva. Durante gli anni, ho dato molte interpretazioni all’approccio che caratterizza il fotogiornalismo contemporaneo coniato da Robert Capa: “Se la fotografia non è abbastanza buona, vuole dire che non sei abbastanza vicino”. E tuttavia, nonostante molte volte convergano, quella che personalmente ho sempre preferito, non riguarda la vicinanza fisica bensì quella empatica con il soggetto fotografato. Questa volta mancavano solo pochi chilometri per raggiungere l’epicentro ma avrei dovuto immergermi nella malattia, entrare nell’intimità delle persone affette dal virus per raccontare le loro storie di resilienza.

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Nel 2020, con un Paese oramai in lockdown, la Lombardia, Bergamo e la sua provincia diventano il focolaio italiano di coronavirus. Mancano le mascherine di protezione, gli ospedali sono saturi di pazienti, scarseggia l’ossigeno e le persone muoiono in casa. I forni crematori si affannano nel seguire il numero delle vittime e serve l’aiuto dell’esercito per portare via i feretri. Il 15 Marzo decido così di partire alla volta di Alzano Lombardo, dove per diverse settimane ho documentato per il New York Times le conseguenze nell’epicentro della crisi. È stato l’inizio di un viaggio dentro l’epidemia durato un anno e non ancora terminato. Sono sempre stato convinto che per fare del buon giornalismo serva molto tempo, condicio sine qua non si rischia di cadere nel vortice della superficialità dell’informazione. È fondamentale avere il tempo necessario per studiare la cultura del Paese, per entrare in contatto con il suo popolo, per organizzare la giusta rete di contatti e per creare empatia con le persone che stai fotografando. È proprio questa empatia la chiave di una buona immagine capace di andare oltre la mera testimonianza fotografica. 

Ora scrivo da Bergamo dove per Repubblica sono tornato sui miei passi, per raccontare attraverso la macchina fotografica l’umanità incontrata e documentare come in un anno la vita è cambiata per sempre. Attraverso le stesse strade, prima percorse solo da ambulanze e mezzi funebri, mentre oggi avvolte dal traffico celano una realtà ancora presente ma nascosta da un’apparente normalità.

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Dentro le automobili le persone indossano le mascherine, diventate oramai oggetto indispensabile, sempre con noi come il portafoglio o il cellulare. Lungo le vie del centro si vedono tanti piccoli gruppi di poche persone, vicini ma lontani tra di loro: non si capisce se appartengano alla stessa comitiva o se non si siano mai visti prima. Il distanziamento fisico è entrato a fare parte del nuovo modo di relazionarsi a Bergamo, ma non solo qui.

Ancora una volta ritorno al Papa Giovanni XXIII, ospedale simbolo della crisi sanitaria, ma questa volta entro solo nel Pronto Soccorso, nei reparti è vietato l’accesso “L’ultima volta sei entrato tu a Novembre, da allora non facciamo più accedere nessun giornalista” mi dicono. Annuisco e mi chiedo che cosa sia cambiato, cosa ci sia di diverso rispetto i mesi passati. E poi durante l’intervista con il Direttore Roberto Cosentini capisco quanto sia difficile vivere la quotidianità dell’anomalia “Eravamo più ottimisti a Giugno, prima dell’arrivo del vaccino, pensavamo di riuscire a voltare pagina. Ma oggi l’incubo non è ancora terminato”. Guarda in alto e muove le mani come per riferirsi al mondo e a quello che è diventato. All’improvviso una signora viene accompagnata d’urgenza nel settore dedicato alle persone infette: ha quasi perso i sensi sotto lo sguardo spaventato di un uomo che attende la risposta del proprio tampone.

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Ricordo i corridoi pieni di letti con le persone ammalate di Covid-19, sdraiate, sotto osservazione. Non erano certo i casi più gravi, per i quali erano state allestiti dei nuovi reparti di rianimazione. Oggi l’ospedale è stato riorganizzato e sembra essere tornato quasi tutto come prima. La visita continua e ci dirigiamo nel padiglione dedicato alle vaccinazioni: “oggi ne vacciniamo 330” mi dice un’infermiera mentre con meticolosa precisione aspira da una siringa la soluzione fisiologica da diluire nel vaccino: “da ogni fiala ne ricaviamo sei, ogni goccia è importante”. Penso a quante poche gocce avrebbero potuto salvare cosi tante persone, e la mia mente ritorna ai momenti vissuti un anno fa. Con la borsa del ghiaccio in testa ed il saturimetro all’indice della mano destra, avvolto in una coperta di disegni floreali di colore ocra, riposava Claudio Travelli affannato dalla malattia, sotto lo sguardo compassionevole di un quadro della vergine Maria. Parlava con sua moglie, con sua figlia Michela e con gli operatori della Croce Rossa sulla possibilità di rimanere a casa o la necessità di andare in ospedale. A Marzo, se si era affetti da problemi respiratori era quasi impossibile trovare delle bombole di ossigeno; contemporaneamente il sistema sanitario e l’accesso agli ospedali era diventato sempre più complicato. La situazione metteva quindi le famiglie davanti al dubbio se ricoverare il proprio caro o provare ad intraprendere le cure di una malattia sconosciuta all’interno delle mura di casa. Ad aggiungere difficoltà alla scelta, c’era il fatto che era vietato per qualsiasi persona fare visita ai parenti. La famiglia veniva avvertita degli operatori sanitari sulle condizioni dei propri cari e spesso per telefono ne veniva annunciata la morte. A volte sono passati giorni da quando la persona è deceduta a quando è stata avvertita la famiglia. Un’urna funeraria con le ceneri ed un sacchetto di plastica con dentro gli affetti personali è tutto quello che rimane: il Covid-19 è diventato il virus della solitudine che abbandona le persone davanti al proprio destino. 

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Claudio ricorda ogni momento di quei giorni, con la legittima paura del sopravvissuto “Da quando mi sono ammalato non sono più lo stesso, ho perso dieci anni. Mi hanno detto che un polmone è andato, ho dolori continui alle braccia e alle gambe e appena faccio le scale mi viene il fiatone”. Da quando è tornato a casa Claudio dorme tutte le notti collegato a un generatore di ossigeno. “E’ sempre triste, gli è cambiato il carattere” aggiunge Michela che durante le settimane della malattia non ha smesso di aiutare il padre: “Ho passato così tante ore al telefono: ricordo di avere aspettato un’ora per chiamare l’ambulanza e due ore nell’attesa che arrivasse. Se avesse tardato ancora non so cosa sarebbe successo”.

Proprio al seguito di una di quelle ambulanze ho passato le settimane di Marzo alla ricerca di quelle fotografie che potessero dare un nome e un volto al virus. Come la famiglia Travelli, molte altre mi hanno aperto le loro porte di casa, coraggiose nel mostrare al mondo l’intimità nella lotta per la vita, diventata memoria storica. Durante quei giorni, non era ancora chiaro quanto tempo il virus potesse rimanere attivo sulle superfici e la paura del contagio era enorme. Toccare una maniglia, fumare una sigaretta o semplicemente impugnare la macchina fotografica poteva potenzialmente essere veicolo di diffusione. Ho dovuto quindi mettere in atto un rigido protocollo di protezione e di sanificazione per ogni oggetto esposto al rischio. Ho usato speso giubbotti antiproiettile, elmetti, maschere antigas come protezione per eventuali attacchi, ma era la prima volta nella mia carriera che dovevo proteggermi contro un nemico invisibile. Dentro una tuta colore latte, con i doppi guanti, la maschera e la protezione sugli occhi, mi sentivo al sicuro, ma era diventato quasi impossibile fotografare. Il respiro appannava gli occhiali e vedere dentro il mirino era diventata un’impresa. Questa volta più di altre, l’esperienza mi ha aiutato: riconoscere prima di impugnare la macchina fotografica l’inquadratura di un 35 mm o di un 24mm senza dovere pensare alla composizione era sicuramente un vantaggio. Rimaneva comunque la difficoltà di trasmettere la vera ragione di quelle fotografie, l’emozione e l’empatia del momento.

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Ho pensato così che il migliore modo fosse spendere una parte del poco tempo a parlare con ogni singola famiglia e spiegare loro le regioni del mio lavoro e l’importanza di un certo tipo di informazione, capace di palesare la pericolosità e la veridicità del Covid-19. Nei momenti di dolore e di pericolo le relazioni si sviluppano con particolare rapidità: forse perché la paura della morte è più reale, forse per la mancanza di quella sovrastruttura creata dalla società, ma la solidarietà e la comprensione reciproca diventano molto più immediate. La fotografia non è altro che imprimere queste emozioni in un’immagine. Così è successo con la famiglia Cagnoni, incontrata per la prima volta a Gazzaniga, quando Cinzia ha deciso di chiamare l’ambulanza perché sua madre Maddalena respirava oramai a fatica: è stata l’ultima volta che l’ha vista prima di ricevere le ceneri dopo la cremazione: “Abbiamo scoperto che Lena era stata portata a Firenze, e da allora abbiamo aspettato 23 giorni prima che si riunisse a noi”.

Negli ultimi mesi sono tornato diverse volte a Gazzaniga: oggi Cinzia si è sposata e il babbo Giovanni si è gravemente ammalato, ma nella camera da letto dei suoi genitori ci sono ancora due pupazzi sorridenti, regalo per l’anniversario dei loro 45 anni di matrimonio.

Come in una situazione di conflitto dove il tempo è scandito delle battaglie e la vita prosegue inesorabile con le sue necessità nell’attesa della fine dei combattimenti, le persone incominciamo ad abituarsi a una nuova normalità dove il rischio appare più lontano. Forse si sentono più coraggiose, forse più incoscienti o semplicemente hanno imparato ad adattarsi allo scorrere del tempo. Così a Bergamo, in Italia, e in gran parte dei paesi dove il Covid-19 ha cambiato le nostre abitudini e quotidianità, viviamo questa nuova realtà resistendo nell’attesa che ritorni la pace.

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