Abruzzo Earthquake 10 years later
Italy | January & April 2019
Il tempo scorre diversamente da come lo vivi. E’ la quarta dimensione, relativa ed effimera, così difficile da immaginare che ce ne rendiamo conto solo quando la sentiamo scivolare sulla nostra pelle. Disegna la vita degli esseri umani e l’esistenza delle cose create: è etereo, spirituale e trasparente, ma le sue conseguenze sono terrestri corporee e reali. A volte crudeli, vittime di prevedibili calamità naturali.
Torno in Abruzzo, la mia terra, per ricercare le orme che il tempo ha lasciato sui visi delle persone una volta conosciute e sulle facciate delle case abbandonate. Paesi e città distrutte il 6 Aprile di dieci anni fa quando un sisma di magnitudine 6,3 colpisce L’Aquila e la sua provincia causando più di 80.000 sfollati e 309 vittime.
Percorro l’autostrada A24 che dalla costa adriatica abbandona il mare per intrufolarsi verso l’interno, dove le imponenti vette del Gran Sasso controllano il paesaggio circostante. Entro nel suo intestino attraverso il lungo traforo per sbucarne fuori ad Assergi, primo paese della provincia aquilana. Oggi come allora mi fermo a Camarda, frazione settentrionale della città, piccolo borgo medioevale una volta abitato da circa cinquecento persone; abbandonato dopo il terremoto, è diventato il ricordo di un passato impossibile da dimenticare.
Dall’altra parte della statale, la strada sale verso il nuovo agglomerato di casette dove Camardesi, Aquilani e parte della popolazione sfollata dai paesi del cratere sono stati ospitati dopo il sisma. Le chiamano casette gli abitanti locali, con un diminutivo quasi a sottolinearne la loro piccolezza, ma velando un profondo senso di diversità da una vera casa. Il loro nome tecnico è progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili) e sono diciannove gli insediamenti sparsi nel territorio. Sono stati costruiti a tempo record dall’allora Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento Protezione Civile del Governo Berlusconi per essere inaugurati, con un’attenzione mediatiche senza precedenti, prima del settantatreesimo compleanno del ex- Premier. Grazie al decreto Grandi Eventi che ha istituzionalizzato l’eccezione è stata aperta la strada alla speculazione edilizia che con gli anni è diventata il simbolo di un’Italia viziata e claudicante: in Abruzzo la politica passa per incassare i voti elettorali, accompagnata dal suo circo propagandistico di promesse infrante.
La New Town di Camarda, come tutti gli altri agglomerati post-terremoto, è un quartiere dormitorio privo negozi, supermercati, banche, bar, musei, librerie o qualsiasi altro punto di aggregazione. Sono case popolari identiche fra loro, con terrazze già fatiscenti, costate migliaia e migliaia di euro al metro quadrato, come gli appartamenti di una grande città italiana.
In una di queste casette vive Jonathan, amico di vecchia data: “Sono passati dieci anni ed il provvisorio è diventato definitivo. Qui non c’è lavoro e nonostante mio cugino abbia una ditta di costruzioni, non possiamo aggiustarci la casa.” Muovendosi verso la terrazza mi indica il vecchio paese: “andiamo ti accompagno”. Il balcone si affaccia su un mare di cemento e lo sguardo spazia sull’antico borgo inabitato dall’altra parte della vallata, o meglio, abitato da muratori e frequentato da qualche cittadino che ritorna fra le sue vecchie mura per rivivere i ricordi, o dall’anziano Signor Antonio che pascola le galline fra i viottoli medioevali ricoperti di vegetazione.
La casa di Jonathan è di un eterno immobile: sul pavimento gli oggetti sono diventati detriti ricoperti da un morbido manto di polvere che li rende innocui. “E’ rimasto tutto come il 6 Aprile: avevamo messo il letto in ingresso per poter fuggire nel caso arrivassero nuove scosse…” …e si abbandona in un silenzio colmo di parole, Jonathan, di chi ha ereditato tutto questo dolore.
Nei mesi e nei giorni precedenti al terremoto, diversi sciami sismici di variabile intensità sono stati avvertiti in tutta la provincia aquilana. La Casa dello Studente, collegio universitario in Via XX Settembre, sotto le quali rovine sono stati trovati otto ragazzi, era già stato evacuato. Il 31 Marzo, il giorno successivo ad una nuova intensa scossa, l’allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso riunisce la Commissione Grandi Rischi che, ribaltando le attese, rassicura la cittadinanza sulla pericolosità di futuri eventi sismici. E così, ignara di quello che sarà, la gente ritorna nelle case per abbandonarle definitivamente pochi giorni dopo.
Saluto Jonathan e continuo il mio viaggio lungo la statale che attraversa Paganica, prima di biforcarsi verso destra per Bazzano e L’Aquila, mentre verso sinistra prosegue verso Onna, paese diventato il simbolo sciagurato della catastrofe. Ancora svuotato dal dolore delle sue quaranta vittime, Onna è il paese che in relazione al numero di abitanti ha avuto le maggiori perdite, circa il quindici per cento della popolazione. Quasi l’intero borgo è crollato e, come Camarda, è un paese fantasma, disabitato nel lento processo di ricostruzione. Nell’attesa di una soluzione definitiva, la popolazione sopravvissuta vive nelle casette, qui cinquantaquattro basse villette di legno costruite in stile ‘trentino’.
Le fotografie scattate negli anni scandiscono i ricordi nella mia memoria, mentre le immagini si alternano dando vita ad un continuum di distruzione: le stesse case diroccate, le stesse sale da pranzo abbandonate, gli stessi libri diventati antichi, le stesse bottiglie di Amaro d’Abruzzo oramai nascoste dietro dense gabbie di ragnatele. Riconosco delle tazzine da tè dal bordo azzurro floreale riposare su fatiscenti credenze diroccate, avvolte dalla vegetazione che ha avuto il sopravvento. Penso all’ultima volta che sono state utilizzate e fotografo l’immobilità di questi momenti ancora vivi nel tempo.
La strada in direzione L’Aquila si interrompe sul ponte Belvedere, chiuso dal sisma, da dove si vede la città disegnata sullo sfondo del Gran Sasso. Come lenze da pesca decine di gru sorreggono gli edifici dalle loro macerie, come non volessero lasciarli scivolare nel solco tracciato dal terremoto. Ne conto almeno quaranta a occhio nudo. All’interno del suo corpo tumefatto i muratori ne ricostruiscono le arterie e, mattone dopo mattone, fanno rivivere i portici ed i palazzi dall’antico sapore ottocentesco. Aggirandosi nel centro storico, di giorno nella vecchia zona rossa, quello che più colpisce è la totale staticità e l’assenza di movimento. La maggioranza delle case, anche quelle ricostruite, sono rimaste vuote e le commesse dei negozi riaperti attendono sull’uscio l’arrivo di immaginari clienti.
Non sono solo i danni visibili le ferite causate dal terremoto, ma ben più dolorose sono le cicatrici lasciate dallo sgretolamento delle relazioni interpersonali. Oltre alla grave crisi economica e sociale, alla mancanza di lavoro che ancora oggi attanaglia il territorio, il sisma ha lacerato il tessuto socio-culturale delle città cancellando la collettività, i punti assembleari ed i luoghi di incontro e di crescita. Il tutto accompagnato da un processo politico, preciso e miope, che ha trovato come unica soluzione l’esodo dei cittadini, prima verso la costa e poi nelle New Town, non luoghi di aggregazione, estirpando intere famiglie dal loro intorno di appartenenza e dislocandole in un limbo d’attesa.
Solo di notte, quando la distruzione si perde nel buio diventando mistero, la città si desta in uno spasmodico atto di rinascita lontano dagli occhi indiscreti. Dall’altra parte di Piazza del Duomo, ombre di ragazzi camminano lungo Corso Vittorio Emanuele ed in fuga dal pungente freddo si intrufolano nei ristoranti e nei nuovi locali notturni.
Mi muovo verso il colle che ospita la basilica di Santa Maria di Collemaggio, sede dell’incoronazione di Celestino V, icona della città collassata e definitivamente ricostruita nel 2017, dove molti giovani si incontrano presso le baracche di Case Matte; matte perché costruite nei pressi del vecchio manicomio ora chiuso ed abbandonato. Primo spazio sociale autogestito nato dopo il sisma, iniziato come punto di accoglienza per i terremotati, è diventato nel tempo luogo di aggregazione e di collettività, promossa attraverso lo sviluppo di progetti socio-culturali. Come lo United, una squadra di calcio popolare composta da migranti provenienti dall’Africa e da giovani Aquilani, che attraverso lo sport portano avanti i valori dell’aggregazione e dell’anti-razzismo. Questa sera suonano gli Slummer Sound, un giovane gruppo aquilano che nella musica rap urla la sua denuncia: la “Cricca”, il primo singolo, è un inno alla collettività. Sono ventenni – che nel 2009 avevano dieci anni – cresciuti giocando fra le macerie delle case diroccate: per loro il terremoto è la realtà che li ha accompagnati durante l’ultimo decennio, diventata un valore identitario.
Passo tempo con questi ragazzi per comprendere come le nuove generazioni hanno vissuto gli anni post-terremoto e conoscere i loro sogni ancora pieni di speranze: le loro parole mi trasmettono un profondo desiderio di cambiamento, la loro volontà di andare avanti e di spogliarsi di un passato che già non gli appartiene. Consapevoli del dolore sofferto, non si sentono più vittime, ma artefici della “rinascita”, che per loro ha sostituito la parola “ricostruzione”, piena di attese, ed il sentimento di collettività è subentrato all’individualismo e agli interessi privati. Spargono i semi per il risorgimento della città, nell’attesa di un rinnovamento politico che sappia leggere le loro richieste di aiuto, con la volontà di creare nel prossimo decennio un substrato sociale ed economico capace di accogliere le nuove necessità dei futuri uomini e delle donne del nostro territorio.