Dispatches from Gaza

Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano
Striscia di Gaza, December 2014

 

Hasan Al Malalha  è avvolto nella sua kefia rossa e con i sandali immersi nella melma; ci mostra il suo oro, la sua vera fortuna e speranza, il suo piccolo allevamento di animali, quasi tutti dromedari e quasi tutti deturpati da un alluvione che ha messo in ginocchio la stricia di Gaza.  Il bramito degli animali viene trasportato da una furia eolica lungo il Wadi, la valle beduina nei pressi di Gaza City dove più di mille persone vivono da giorni isolate e immerse in un fango acquitrinoso dove anche i muri delle case piangono umidità.

Gli impianti di scarico idrico sono collassati, l’acqua ha invaso le diverse città e obbligato i numerosi gazawi a scappare dalle proprie abitazioni ed a muoversi in barca lungo le strade dove il livello dell’acqua è arrivato fino a tre metri.

Anche gli dei sembrano avere voltato le spalle a Gaza, ed oramai da troppo tempo. Ciò non basta ad Hasan per smettere di credere, di sognare che il suo dio possa ancora cambiare il destino dei suoi figli. Anzi, crede sempre di più e sempre in modo più incondizionato. Non è lo spirito natalizio, ma la speranza che Allah possa risollevarli e ridargli la loro terra.

Non amo i pregiudizi, nemmeno quello del cattivo Israeliano, quindi dopo avere girovagato per più di due anni in lungo e in largo per i paesi arabi, decido di andare a Gaza per cercare di capire qualcosa di più sulla secolare condizione palestinese. Nella Striscia non c’è la disperazione degli esuli tunisini, non ci sono i bombardamenti incontrati ad Aleppo e nemmeno la neve che assidera i profughi siriani. Non c’è la povertà egiziana e non ci sono le diatribe Kurde. Negli occhi di Hasan si incontra la dignità e la rassegnazione di un milione-seicentomila abitanti – una delle aree più popolate del pianeta – che vivono in una prigione affacciata sul Mediterraneo. I gazawi vivono da più di sessanta anni senza la possibilità di uscire dai propri confini, all’interno di un lembo di terra dove il deterioramento delle condizioni di vita aumenta giorno dopo giorno; vivono con la paura e con speranza di un conflitto, nell’attesa che Israele decida di attaccare per ridare per qualche tempo una nuova speranza a Gaza.
Anche il giovane Ahmed, il nostro fixer, il riferimento in loco per i reporter, mi dice e ripete “quando c’è la guerra, se non muori vivi meglio. Arriva petrolio torna la luce ed i viveri”. Sembra un paradosso vivere nell’attesa di un conflitto per stare meglio, ma è quello che succede qui a Gaza, dove il costo della benzina negli ultimi mesi è raddoppiato, le ore di luce variano da 6 a 8 al giorno ed ora l’alluvione ha rovinato le poche coltivazioni e impregnato le speranze palestinesi di acqua fognaria.

Dopo la caduta di Morsi e dei Fratelli Mussulmani, il nuovo Egitto, un paese che dovrà sperare nel magnanimo Allah per evitare una prossima guerra, ha deciso di chiudere il confine di Rafah con la Palestina e quindi togliere loro anche l’ultima finestra sul mondo. Il frutto della chiusura del valico ha avuto un effetto a catena sui prezzi dei prodotti e soprattutto su quello del petrolio. Contemporaneamente anche diversi tunnel clandestini che univano la striscia con l’Egitto sono stati chiusi e lo stesso Hamas, controllato dai sistemi satellitari Israeliani, fatica a farne di nuovi. Sfortunatamente i problemi non finiscono qui: all’embargo dei paesi confinanti si aggiunge quello delle risorse idriche e la scarsità di acqua. Un ulteriore paradosso che affligge lo sfortunato limbo di terra bagnato dal mare: dai lavandini esce acqua salata di un colore ocra sporco, non esiste un vero impianto di dissalazione funzionante e le quantità di nitrati e di cloruro presenti, componenti principali dei fertilizzanti, sono circa dieci volte superiori ai limiti imposti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. E’ previsto che, a meno di un rinnovamento delle rete idrica, per il 2016 Gaza rimarrà senza acqua, quindi senza vita. Nonostante i diversi quartieri siano sepolti dalle alluvioni, l’acqua continua a mancare mentre l’embargo Israeliano sta lentamente logorando il paese e sgretolando la mente delle persone.

“Con la chiusura di Rafah è difficile anche trovare il Tramadol, ma forse oggi ho incontrato un ragazzo che riesce a farmi evere delle pillole” mi confida Ahmed con lo sguardo lucente dopo avermi descritto la situazione di dipendenza che una grande fetta della popolazione ha verso i barbiturici. “Mi rilassa e fa sentire meglio”.