La Guerra del Silenzio

La Guerra del Silenzio

Segou, Mali // January 2013
Fabio Bucciarelli per il Fatto Quotidiano

 

Il colore delle acacie è rosso terra e il sole unito all’aria polverosa non da pace alle popolazioni dei villaggi che vivono lungo lo stradone che da Bamako porta verso la guerra del Nord. Solo in questo modo vengono a contatto con il resto del mondo: anziani e giovani seduti all’ombra di un telo strappato indossano una mascherina per guardare i grossi mostri meccanici dei giornalisti sfrecciare verso la notizia.

Cinque ore di macchina, poche parole per non sprecare le energie e si arriva a Segou, la vecchia capitale Bambara che ha costruito la sua fama sulle rive del Niger; prima conosciuta come punto di passaggio per le merci e dei turisti diretti verso Timbuktu, ora per essere diventata il cuore pulsante dei media Internazionali. Gli alberghi continuano a tenere alti i prezzi come nel periodo del benessere. Bisogna affrettarsi per trovare una camera in un tugurio da ottanta euro per non rimanere spazzato fuori dai giochi dell’informazione. Diversamente dal Medio Oriente, qui in Africa il giornalismo costa caro: bisogna affittare la macchina, prendere un fixer e pagare la benzina ed il cibo, per te e per loro a prezzi occidentali. Questo fa si che diversamente dalla Siria, il numero degli inviati mandati dai giornali sia maggiore agli squattrinati freelance.
Segou quindi, il ponte verso la guerra: sterzando a sinistra si passa da Markala a Niono e si arriva al front Ovest, quello di Diabaly e della frontiera Mauritana. Dall’altra parte, in direzione nord, si attraversa l’aereoporto militare di Sevare, Mopti Konna e poi o Gao o Timbuktu.

Durante questi giorni le truppe francesi a bordo dei loro imponenti cavalli da guerra si spostano verso Ovest. Decido di seguirle, o meglio anticiparle per potere immortalare la felicità della popolazione al loro arrivo. Gente entusiasta nel rivedere i vecchi coloni. I Drapeau de la France sventolano spinti dai cori di giubilo mentre un’altra strana guerra ha inizio: si dice che i francesi vogliano liberare il nord del Mali dai Jidaisti e dalle cellule di Al Quaeda alleatesi ai  tuareg, gli anziani padroni del deserto. Intanto il vecchio odio dei neri del sud, degli storici allevatori di bestiame, torna a scorrere. Una volta schiavi dei pelle chiara con il turbante, ora marciano fieri con i loro “amici” occidentali per riconquistarsi le città cadute in mano alla Sharia. E’ strano pensare che i tuareg si siano alleati con i fondamentalisti islamici e la Francia non sia intervenuta per l’ennesima volta dopo l’officiale fine del colonialismo per non perdere l’influenza sui suoi vecchi interessi economici nascosti nel sottosuolo, i grandi giacimenti d’oro petrolio ed uranio.

E’ mattina presto e i soldati si sono appena svegliati. Oggi è il giorno della grande marcia su Diabaly; Inshallah come dicono i fedeli mussulmani. Approfitto della calda luce del mattino per scattare qualche fotografia, nell’attesa del permesso di andare verso la città liberata .“La città è stata conquistata, ma potrebbe esserci qualche jidaista nelle campagne a fianco. Per la vostra incolumità, non potete passare. Magari domani”. Sentenzia il comando francese prima in coferenza stampa, e poi attraverso i militari maliani  a qualsiasi giornalista che cerca di avvicinarsi agli scontri. Diabaly è inaccessibile, tantomeno accedere alla frontline fino a quando la città non verrà dichiarata pulita.
Mi chiedo perchè la stampa internazionale non possa avvicinarsi agli scontri  e cosa può voler dire pulire una città dopo un intervento armato. La frustrazione accompagna le ore e scandisce i due interminabili giorni di attesa al chieck-point di Niono. Solamente il terzo giorno, scortata da qualche soldato maliano, la carovana di Land Cruiser può cavalcare  i sessanta chilometri di steppa ardente che li separa da Diabaly: all’arrivo una città incuriosita ed adornata dalle bandiere francesi e maliesi e dai militari scherzosi seduti a cavalcioni dei propri blindati, mentre i bambini giocano a pallone fra i carri armati. Qualche metro più in là, nascosto dalla piazzetta in festa, qualche souvenir della battaglia: quattro macchine bruciate, due blindati distrutti dai precisissimi razzi francesi e qualche fucile abbrustolito vicino ad un rpg inesploso. Questa è la guerra che viene fatta vedere in Mali. Questo è quello che i giornalisti possono raccontare: un conflitto senza spari feriti morti lacrime dolori sentimenti. L’anomalia di un così grande blocco mediatico fa quantomeno venire spontanea qualche domanda: che cosa avrà da nascondere l’esercito francese? Come vengono trattati i tuareg, accusati di cospirare con i Jidaisti? Dove sono finiti i terroristi, i vecchi conquistatori delle città del nord? Ed i loro morti? Tutte domande occultate all’informazione di un  qualsiasi giornalista che è venuto fino a qui per documentare l’invasione francese, o la liberazione francese del Mali.

Non soddisfatto, limitato dal silenzio imposto dalla grande armata, il giorno dopo mi dirigo verso il fronte nord, quello di Mopti. Le sette ore di viaggio passano veloci, la strada verso Timbucktu questa volta è asfaltata e le popolazioni locali guardano il convoglio dei bianchi senza mascherina. Al checkpoint di Sevare, una trentina di chilometri prima della base militare, un controllo dei governativi aspetta i giornalisti diretti verso le zone contese. “Mi spiace, abbiamo l’ordine di non farvi passare, dovete tornare indietro” mi dice un militare armato di giubbotto antiproiettile casco e fucile, mentre fa cenno di passare ad un’automobile strabordante di maliani diretti a casa.
L’atmosfera e la tensione sembrano quelle di una guerra vera, peccato che non si riesca a raccontare. Anche oggi, per tutti i gionalisti che sono arrivati fino a qui tocca la stessa sorte. Sono dentro solo quelli che direttamente hanno scelto la strada del nord. Anche per loro però, l’accesso agli scontri è negato.

Negli ultimi tre giorni le città una volta roccaforti dei padroni di Al Quaeda, Gao e Timbucktu, sono state liberate dall’avvento dei corazzati francesi, ma dei ribelli nessuna la traccia. Probabilmente si sono rifugiati nelle montagne del nord e nel deserto a ridosso dell’Algeria, nella regione di Kidal.  Anche degli scontri non si sa nulla, nessuna immagine è ancora riuscita a trapelare, stretta dalla forte morsa della censura.
Fino ad oggi, della guerra in Mali si conosce solo l’euforia che accompagna la liberazione francese, una propaganda offuscata solo dall’ombra di qualche racconto della popolazione locale.