Bentiu
Bentiu, South Sudan, July 2012
Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano
Bentiu, capitale dello Unity State, è l’utima città prima del confine. Il concetto di città, in Africa, è molto diverso dalla fotografia che si sviluppa la nostra mente occidentale. Bentiu è un agglomerato di baracche, qualcuna con tetto, accatastate lungo una lunga lingua di terra rossa. Rossa come il viso di un inglese dopo una giornata di sole. Durante la stagione delle piogge, il grande accampamento scompare e si trasforma in un manto acquitrinoso di fanghiglia.
Nell’atmosfera colorata e calda della tarda mattinata, mentre bambini ricoperti di stracci cavalcano frustando il loro asinello, le donne Dinka trasportano il peso dell’esistenza sulla loro testa, un mezzo di trasporto improvvisato mi porta nell’unico pseudo-albergo disponibile.
“Sei un giornalista, vero?” mi chiede Machar sull’uscio dell’Ethiopia Hotel. Non fatico a credere che un turista non ha nessuna ragione per spingersi in questa landa desolata durante la stagione delle piogge. “Se vuoi raccontare la guerra e il Sudan People’s Liberation Army sei nel posto giusto.” Incalza con il suo goffo inglese. Machar sapeva già più di quello che ero intenzionato a dirgli, ma mi conferma che sono sulla buona strada. Ora dovevo solo affrontare l’interminabile burocrazia e dirigermi al quartiere generale del SPLA. Fortunatamente a Juba avevo fatto le carte necessarie, avevo tra le mie mani la lettera di presentazione del Major General Mac Paul. Difficilmente avrebbero potuto non accettare un accredito proveniente da così in alto.
Afferro il primo tuk-tuk e mi dirigo verso Rubkona, al quartiere generale della 4° brigata del SPLA, con il prezioso lasciapassare ben saldo tra le mani.
L’headquarter del SPLA, un villaggio all’interno del villaggio. A sinistra l’accampamento militare, mentre a destra quello delle donne e dei bambini, le famiglie dei soldati. Anche nel Karen State in Birmania era lo stesso. I civili che convivono con i soldati. In questo modo si sentono più sicuri, al riparo da possibili attacchi stranieri. Ed i soldati possono considerarsi come a casa fra le cataste di munizioni e gli Ak-47 appesi agli alberi.
L’accredito funziona, il generale storce un po’ il naso ma accetta la mia presenza, mi affida a Peter, e mi augura buon lavoro.
L’accampamento è interminabile, migliaia di soldati, come piccole formiche che lavorano sotto l’implacabile sole. C’è chi pulisce le armi, chi rinsalda le traballanti capanne col terriccio umido, chi scalda pentoloni sul carbone ardente e chi si prepara per andare al confine.
Il tempo scorre mentre imprimo nella memoria digitale della mia macchina fotografica le diverse immagini, prima di imbattermi in un alto ufficiale del commando. Preferisce rimanere nell’anominato, l’anziano soldato, ma si lascia intervistare confessandomi prezionse informazioni.
“Vedi, siamo qui tutti in attesa. Cosa aspettiamo? Ordini.” Diretto e chiaro continua: “Circa 20 giorni fa, la Comunità Internazionale ci ha fatto ritirare dal fronte, ed ora aspettiamo il negoziato per la riformulazione del confine”.
Nel luglio del 2011, tutto il mondo era concentrato sulla nascita del nuovo Sud Sudan, dimenticandosi che la creazione di uno stato è cosa ben più complicata di un referendum. La Comunità Internazionale, che avrebbe dovuto fissare i confini tra Nord e Sud, ha lasciato l’ardua decisione a Ahmad al-Bashir, il dittatore di Khartum, accusato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Bashir, abile giocatore di Risiko e buon amante del petrolio, non ha avuto dubbi sul dove tracciare la linea di confine. Parte dello Unity State, ricco di oro nero, da allora sarebbe appartenuto a Khatum. Così nasce l’ennesima guerra per il petrolio, la prima per il nuovo Sud Sudan. Da una parte Bashir, dall’altra l’SPLA. Oltre che appropriarsi dei ricchi territori Dinka, Bashir ha pensato bene di cambiare anche il nome di diverse città. Il conteso villaggio di Panthou, forse troppo difficile da pronunciare, è diventato Heglig e la provincia di Bentiu e diventata cenere sotto i bombardamenti dell’esercito sudanese. Gli stoici Dinka, non si sono fatti intimorire, e zigzagando fra centinaia di corpi, hanno riconquistato la città, fino a quando, ad inizio maggio, la Comunità Internazionale ha imposto il cessate il fuoco nella zona di confine.
Si saranno per caso resi conto che la creazione di uno Stato è qualcosa di più di un referendum?
Oggi i due eserciti si guardano negli occhi attraverso le baracche di Tishewin, in attesa di un negoziato che difficilmente placherà gli animi. L’SPLA vuole una riformulazione della frontiera di circa 150Km, fino a Keilik, la fine dell’amministrazione dello Unity State, mentre Bashir vuole il petrolio. Una storia già vista, della quale sappiamo già la fine. Sempre l’oro nero, sempre le armi e sempre il popolo soggiogato dai più forti.
Si prospetta quindi una nuova guerra africana, un nuovo massacro, dove solo il vincitore potrà continuare il luccicante business di petrolio con la Cina.