La guerra civile libica: 10 anni dopo

Libya | February 2021

La Guerra Civile libica: 10 anni dopo

Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano

Sono passati dieci anni dall’inizio delle guerre e delle rivoluzioni battezzate Primavere Arabe, un sogno democratico che in certi paesi si è trasformato in un incubo di oppressione e di negazione di ogni diritto umano. A causa degli interessi personali ed internazionali in gioco, nessuno è stato in grado di formare una classe dirigente capace di organizzare ed istituzionalizzare la pulsioni delle piazze. Ma quanto possono durare i processi di democratizzazione di uno Stato dopo un conflitto armato? Cinque, dieci, trenta, forse cinquanta anni?

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Nel 2011 La Libia comincia il lungo cammino di rinascita attraverso una rivoluzione diventata guerra civile, supportata dalla Nato e certificata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Terminata con la cattura e l’assassinio di Muammar Gheddafi, dopo i primi mesi illuminati dalla speranza di un nuovo governo capace di unire sotto lo stesso sole l’intero popolo, lo spettro del conflitto non tarda a palesarsi, trascinando la Libia in un nuovo scontro fratricida.

I ricordi diventano fluidi e si mescolano tra di loro creando un insieme di emozioni. Gli ospedali, le piazze, i cimiteri, la frontline e le strade percorse si incrociano, scandite nella mia memoria dalle fotografie scattate. Come una cicatrice che ricorda il dolore della ferita subita, le immagini mi trasportano indietro nel tempo, accompagnandomi per mano durante gli otto mesi di guerra che ha cambiato il corso della storia contemporanea.

La rivoluzione comincia nel Febbraio del 2011 con le prime manifestazioni pacifiche contro l’ultra decennale governo del Raìs. In quarantadue anni di potere indiscusso, l’eccentrico e paranoico dittatore dall’ego smisurato, aveva accentrato su di se, sulla sua famiglia e sugli alleati tribali tutte le ricchezze procurate dai grandi giacimenti di petrolio, lasciando la Libia sgretolare davanti agli occhi del suo popolo affamato. Accusato di corruzione, soprusi, attacchi terroristici e mancanza di diritti umani, il Colonnello non ha tardato ad aprire il fuoco contro il suo stesso popolo, arrestando, incarcerando ed uccidendo i primi dissidenti. Diversamente dall’esito delle proteste che hanno detronizzato i regimi di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, Gheddafi sfidava il suo nemico in televisione: “Non sono un Presidente, sono un leader, un rivoluzionario e resisterò fino alla morte. Morirò da martire” annunciava apostrofando i dissidenti come “topi di fogna” e continuando a ribadire che la rivolta era stata sobillata dai terroristi di Al Qaeda che avrebbero drogato i giovani libici.

La rivoluzione era cominciata in Cirenaica, mentre la Tripolitania era ancora sotto il suo controllo. Con i voli diretti in Libia cancellati, bisognava arrivare al Cairo ed in macchina raggiungere il confine prima di entrare nel territorio controllato dai ribelli.

Bengasi era diventata la base degli oppositori del governo. Le bandiere rosse, nere e verdi della nuova-vecchia Libia sventolavano dagli scheletri delle case distrutte dai combattimenti, mentre lungo la passeggiata che costeggia il mare Mediterraneo la gente festeggiava l’inizio della fine.

“Allah u Akbar” e all’improvviso dalla folla spunta una processione al seguito di una bara sorretta da uomini in camicia. Era il feretro di un martire della rivoluzione: così venivano chiamati i combattenti uccisi dal fuoco lealista. Studenti, architetti, commercianti, tutti insieme uniti dalla speranza di una Libia libera dal satrapo. Avevano imbracciato le armi senza averle mai viste prima e senza sapere come e dove sparare, in maglietta e ciabatte si dirigevano al fronte, per uccidere o per morire.

Ogni guerra ha le sue battaglie, ed in Libia durante primi giorni di Marzo si combatteva in direzione Brega, Ras Lanuf e Ajdabya, lungo la strada litoranea inaugurata dal dittatore italiano Mussolini nel 1937. L’unica strada asfaltata che unisce tutto il paese dall’Egitto alla Tunisia, lunga più di 1800 chilometri, era diventata il teatro di guerra delle prime fasi del conflitto. Costellata da raffinerie di petrolio, come una spaccatura fra mare e deserto, era diventata la linea immaginaria di una frontline inesistente, sulla quale sfrecciavano i furgoncini addobbati dalle mitragliatrici antiaeree da 14.5 millimetri. Il fronte si trasformava di ora in ora: di mattina si potevano fare chilometri insieme ai ribelli che conquistavano terreno, e di sera ritornare indietro fino al punto di partenza, se eri fortunato. Il rischio era perdersi in quella terra di nessuno fra i due schieramenti e venire catturato dei lealisti.

Dopo le prime settimane di conflitto, il numero delle vittime non faceva altro che aumentare, e

con il Rais ancora al sicuro nel suo bunker Bab al-Azizia di Tripoli, le truppe lealiste riconquistavano il terreno perso raggiungendo le porte di Bengasi e pronti a sferrare l’attacco finale per cancellare la chimera rivoluzionaria. Ma a distruggere il sogno della Grande Jamahiriya di Gheddafi arrivano i bombardamenti della Nato capeggiati dalla Francia di Nicolas Sarkozy e dall’Inghilterra di David Cameron, pronti a sostenere i ribelli, possibili nuovi interlocutori con cui spartirsi quello che rimarrà del ricca ex colonia italiana.