L’Agonia del Sud Sudan
Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano
Sud Sudan // March 2014
Ricordo il Sud Sudan dallo sguardo della sua gente. Stanco da decenni di guerra ma illuminato da un’indipendenza sudata ed ottenuta: era il maggio del 2012, pochi mesi dopo che il referendum sancì la nascita del nuovo Stato. Si parlava di sogni, di sviluppo di nuove infrastrutture, di scuole in grado di formare la classe borghese del futuro e di sanità capace di curare una maggiore fetta di popolazione. Le nuove bandiere sventolavano sui tetti di Juba, capitale dello Stato più giovane del mondo e il Presidente Salva Kiir godeva dell’ammirazione della sua gente.
Nonostante le grandi aspettative, al nord lungo la frontiera con il Sudan di Khartoum si continuava a combattere. Una guerra per l’annessione dei giacimenti petroliferi. Durante la divisione del paese, il Presidente al-Bashir tracciò i confini del nuovo Stato non tenendo conto dei gruppi etnici presenti nella regione e delle richieste di Juba, fomentando così un’ennesimo conflitto per l’oro nero lungo la frontiera fra i due Stati.
Andai prima a Turalei, per documentare i migliaia di profughi di ritorno dal Sudan del nord, cacciati dal Presidente ed obbligati a tornare nella loro terra natia. Poi Bentiu, raccoforte del militari del SPLA (Sudan People’s Liberation Army) che lottavano per il controllo della regione. Anche in questa zona, lontana centinai di chilometri dalla capitale si parlava della nasciata della nuova nazione, ma gli interessi economici e decenni di guerra facevano passare in secondo piano l’euforia indipendentista.
Sono passati quasi due anni e la speranza sul volto della gente è scomparsa, quasi dimenticata. Si combatte ancora lungo la frontiera di divisione dei due Sudan, ma non è questa la novità. Le speranze sono passate in secondo piano. Il Sud Sudan si è risvegliato martoriato da un conflitto politico per la Presidenza, diventato guerra civile fra le due etnie più grandi del paese.
Da una parte ancora Salva Kiir, Dinka, successore del padre fondatore John Garang, ed attuale Presidente del Sudan del sud. Dall’altra parte il suo vice, Riek Machar di etnia Nuer.
Nell’estate del 2013 cominciano a palesarsi i dissapori fra i due, tanto da obbligare il Presidente a licenziare il suo vice ed isolarlo dalla vita politica del paese. Machar decide così di scappare da Juba per evitare ritorsioni e di tornare nella sua terra d’origine, lo Unity State dove l’etnia Nuer è più numerosa. Comincia così a formare un nuovo esercito ribelle composto dai disertori armati dell’esercito regolare e dalla popolazione Nuer. In beve tempo lo scontro politico fra le due personalità chiave del paese diventa guerra civile. Un odio nascosto dalle speranze di libertà, celato dal desiderio di indipendenza e smascherato dal potere.
La mia speranza di tornare in Sud Sudan e mostrare lo sviluppo di un ricco paese africano svanisce ancora prima di nascere. Qui si documenta un paese sul baratro dove lo spettro della pulizia etnica è alle porte.
Organizzate le truppe, nel Dicembre del 2013 Machar sferra i suoi primi attacchi conquistando Malakal, poi Bentiu con l’intenzione di dirigersi varso Juba. In difficoltà Salva Kiir chiede l’aiuto dell’Uganda. Yoweri Museveni interessato a rafforzare il business del greggio con il Sud Sudan schiera le truppe ugandesi in difesa dei territori conquistati rispedendo i ribelli fuori da tutte le città principali. Nel mese di gennaio e febbraio è stato firmato anche il “cessate il fuoco” non rispettato da intrambe le parti ed infranto ufficialmente a fine febbraio con i nuovi scontri di Malakal.
Nel tempo trascorso in Sud Sudan mi sono reso conto di quanto è diversa una guerra africana da una mediorientale. In Libia o in Siria si vedeva la battaglia, assaporava l’odore della polvere da sparo, piangevano i feriti ed i morti. Si fotografava il conflitto nelle sue fasi più cruente e inumane. Mentre in Africa la guerra si vive nella sua quotidianeità, nei volti della gente, abbandonati al proprio destino, imprigionati, senza la possibilità di scappare né quella di cambiare il futuro.
IL CAMPO DI MINGKAMAN
Con in testa il cappello da cowboy in stile presidenziale, con il solo gesto del braccio il capovillaggio Simon mi apre gli occhi stanchi di tanta miseria, mostrandomi la realtà del centoventimila sfollati che invadono la pianura al di qua del Nilo. Sono tutti scappati, perché al di là, dall’altra parte c’è Bor. La città contesa dove la vita non conta e la sopravvivenza è diventata un miracolo. Prima, decenni di battaglie contro il governo del Nord, ora tumefatti da una conflitto intestino. Cambiano gli attori ma la sostanza rimane la medesima: la Guerra. Una guerra africana, violenta e senza tregua, infinita, una guerra di potere ed ora una guerra etnica.
Le figure appaiono sfocate, vibranti sotto il sole equatoriale il paesaggio è surreale. Migliaia di IDP’s (Internal displaced people) fuggiti dagli scontri cercano riparo dai raggi del sole sotto scheletri dei rari alberi o al fresco di cespugli spinosi. Durante il giorno tengono tutto accatastato: materassi pentole vestiti arnesi vari cariole e valigie, tutto ammucchiato come dovessero essere sempre pronti a fuggire, a scappare da un nuovo attacco. Poi quando scende la sera, smontano il mucchio di averi e preparano la loro casa per la notte, costruendo ogni giorno il proprio giaciglio. E domani sarà lo stesso.
Simon mi fa da cicerone all’interno del campo, mi fa vedere da dove arrivano gli sfollati in fuga da Bor, le interminabili code per la registrazione alle liste del World Food Programm e l’attesa ai pozzi d’acqua non potabile. Mi spiega la percezione del tempo per quelli che aspettano.
Quotidianamente decine di persone si muovono da Mingkaman a Bor e viceversa. Quelli che tornano nella città distrutta, vanno per vedere le loro case e a salutare i propri cari che sono restati affrontando il rischio di incursioni ribelli. E poi tornano indietro verso il deserto di Mingkaman. Salgono su barchette instabili, in decine accompagnati dalle loro coperte e le loro valigie, attraversano il Nilo e in meno di due ore diventano sfollati. “E’ come se fossimo tornati indietro al 1993, abbiamo perso tutto quello che avevamo”, Simon si toglie il cappello come in segno di rispetto verso il passato “Non abbiamo più nulla, nemmeno la dignità. Ci vorranno anni per tornare al passato. Tutto quello che avevamo conquistato ci è stato tolto per l’ennesima volta”.
L’OSPEDALE DI YIROL
Dopo qualche giorno decido di lasciare il compuond della ong CCM (Comitato Collaborazione Medica) che mi aveva ospitato fino ad ora, a poche decina di miglia dal campo sfollati di Mingkman. Pochi chilometri che in Sud Sudan diventano ore sull’aspra strada sterrata che unisce i due villaggi. Decido così di proseguire verso il nord, verso la contea di Yirol, un’area controllata dell’etnia Dinka che ha visto la violenza degli scontri delle ultime settimane.
Yirol è uno dei villaggi più grandi della zona: formato da una strada principale non asfaltata con al fondo l’ospedale in muratura, circondata da baracche di legno e lamiera che si affacciano sul lago omonimo. Nella stagione delle piogge l’area intorno al lago diventa pantano, ed il pantano pabulum di zanzare malariche.
Come spesso accade, arrivato al villaggio vado direttamente all’ospedale, centro nevralgico di informazioni utili per capire lo stato del conflitto.
Varcare il cancello dell’ospedale è come entrare in un girone dantesco dove le urla degli uomini e delle donne ferite si confondono con il gemito dei nuovi nati. Nei giorni precedenti al mio arrivo ci sono stati brutti scontri nella contea di Yirol, nella sua parte più a ovest, in prossimità di Adior. Gruppi armati appartenenti alla fazione di Machar hanno cercato di conquistare la zona, con incursioni puntuali ed efficaci. Durante gli scontri i ribelli sono stati cacciati dai soldati governativi del SPLA, ma non senza gravi perdite. Molti dei soldati e dei civili feriti dai colpi di Kalashnikov sono arrivati qui, all’unico centro sanitario attrezzato in centinaia di chilometri. Comunque non abbastanza grande per ospitare l’esodo dei feriti di guerra: il corridoio dell’ospedale è diventato un vero lazzareto. Soldati e civili giaciono nei loro letti mentre intorno, nella tipica tradizione africana, l’intera famiglia li assiste.
Mi muovo tra i feriti nell’ultima stanza dove incontro Abraham, seduto, coperto da un leggero lenzuolo. Cominciamo a parlare e mi raconta la sua storia spostando il sudario per mostrarmi le ferite di guerra. Abraham ha perso una gamba, amputatagli qualche giorno fa dal dottore dell’ospedale. In questo modo è riuscito a sopravvivere. Ora spera che la guerra finisca e che i suoi figli possano scordare presto il conflitto e crescere in un Sud Sudan libero dal male.
Per lui sarà difficile dimenticare.