L’altra siria

Fabio Bucciarelli per Il Fatto Quotidiano
November 2013 // Kurdistan Siriano

 

Con il suo inseparabile cappellino a visiera, la camicia di un finto stropicciato blu e azzurro, l’inesistente barba, il fratellino biondo e quello con gli occhi chiari, Hogen non rappresenta esattamente l’immaginario dell’uomo arabo medio-orientale. O almeno non il nostro cliché di uomo medio-orientale. Quando parla nel suo inglese dall’accento duro, Halgurd sa sempre esattamente cosa dice e ha chiaro i dubbi che vuole suscitare con il suoi discorsi: ogni riflessione affrontata, è stata da lui sviscerata giorni, mesi o molto problabilmente anche anni prima. Quando parla della cultura kurda delle riforme del pensiero unico e delle determinazione di un popolo introdotte da Abdullah Ocalan, gli occhi brillano di speranza e libertà: “Un giorno saremo liberi di parlare la nostra lingua, insegnarla a scuola e avremo la nostra terra. Il processo di cambiamento è già iniziato.”

E’ Halgurd sotto il suo berretto la prima persona che vedo quando scendo dalla barca usata per trasportare avanti e indietro i civili sullo stanco fiume, un tempo il polmone della Mezzaluna Feritile. L’impressione che mi ero fatto leggendo i libri sulla Mesopotamia, era di una terra dove la ricchezza e la maestosità prosperassero. Come spesso accade la realtà è diversa dall’immaginazione ed il nobile Tigri lungo questo tratto di frontiera, si è trasformato in Acheronte e le grandi imbarcazioni di un tempo hanno preso le sembianze di squallide scialuppe dove Caronte fa spola tra la vita e l’Ade. Da una parte l’Iraq e dall’altra la Siria, o  meglio, il Kurdistan del Sud e il Rojava.

Il Kurdistan, il sogno dello Stato che non c’è, un’area piena di risorse petrolifere che ha sempre perso ogni lotta di riconoscimento, è una terra spezzettata e ambita da molti, divisa su quattro paesi e circondata dall’odio dagli stessi. Il Kurdistan del Nord, ovvero la Turchia, la stessa che ha sempre considerato l’etnia Kurda alla stregua di terroristi internazionali, ha bandito il movimento e rinchiuso in carcere a vita il suo leader Ocalan. Qui i Kurdi vivono in totale clandestinità, cercando di parlare la loro lingua madre lontano dagli occhi indiscreti di Erdogan.
Nel Kurdistan dell’Est (Iran), essere Kurdo vuole dire non potere vivere alla luce del sole. In particolare dopo la cacciata dello Scià nel ’79, il regime di Teheran ha represso violentemente ogni timida rivendicazione da parte dei Kurdi e di tutti coloro non il linea con la parola del capo supremo Khomeini.
Anche in Iraq la storia dei kurdi ha lo stesso sapore agrodolce, ma vive un presente diverso. Sotto il regime di Saddam Hussein, l’etnia ha sofferto una delle pagine più violente delle sua storia: nel 1998 il dittatore attaccò l’area indipendentista con armi chimiche uccidendo migliaia di persone. Solo dopo la sua morte, i kurdi sono riusciti ad organizzarsi e a creare una sorta di Stato federale all’interno dell’Iraq, riconosciuto da Bagdad ma non dalla Comunità Internazinale.  Erbil, (Euler in Kurdo) ne è diventata la capitale ed il governo capeggiato da Barzani aspira alla completa autonomia viaggiando a ritmi rapidi anche per le potenze occidentali.

Mentre scendo dalla scialuppa e tutte le anime vanno in contro al proprio destino, penso a quanto è cambiata la Siria dall’ultima volta che sono venuto. E’ passato un anno e migliaia morti, milioni di profuhi e lo spettro  delle armi chimiche. La richiesta di democrazia e di libertà urlata dall’esercito ribelle si è trasformata in lotta islamica per il controllo del territorio. In molte città, le cellule Jidaiste hanno sostituito il Free Syrian Army conquistando i punti strategici del paese: Azaz al confine con la Turchia, Aleppo e la zona centro orientale, le città di Deir-az-Zoir e Raqqa.
Salto così nella macchiana che zizzagando tra gli sterminati campi di petrolio ci porta a Derek, al Malkia in arabo. Come nel Kurdistan Iracheno, qui più che mai, ogni singolo paese, città o tenda spersa nella tundra, ha il doppio nome. Quello conosciuto al mondo, scritto in arabo e quello comprensibile solo ai 40 milioni di kurdi. Curva dopo curva il paesaggio cambia: salutate le montagne turche di confine, scendiamo in collina, che piano piano si è fatta sempre più bassa e sempre più ampia fino a diventare pianura e poi un deserto ornato di centinaia di pompe petrolifere. Strani marchingeni di metallo che in controluce sembrano uccelli con il becco in giù, pronti a scavare per trovare oro.
A Derek, dopo poche ore abbiamo già incontrato la portavoce della Woman Accademy i membri della People’s House, il responsabile degli Asays, la censura ed il nostro uomo. Praticamente tutta Derek in meno di un giorno ha saputo che tre giornalisti europei armati di macchine fotografiche volevano vedere quello che c’è  dietro la guerra. Fare giornalismo in Kurdistan non è come farlo nella altre zone della Siria: gli anni di sofferenza e quelli di sottomissione, una stessa educazione e un indottrinamento culturale, hanno reso il popolo kurdo più efficente e più compatto. Conoscono bene il ruolo e la forza dell’informazione e si promuovono a fare buon viso a cattivo gioco. Questo non vuole dire necessariamente censura, ma indirizzamento verso qualche evento anzichè qualche altro di maggiore interesse giornalistico. Fortunatamente Halgurd, oramai  il nostro fixer, ha saputo destreggiarsi fra la morsa del pensiero comune e quella più forte di tre giornalisti che non avevano nessuna intenzione di arrendersi.

In una decina di giorni abbiamo ottenuto i permessi per andare alla frontiline di Ras al Ayn e a quella di Ramelan, per passare la città contesa dal regime di al-Quamishi e presenziare al Training Camp degli YPG di Shedshelan, per intervistare lo spokeman degli YPG Seliman Mohmed e Salim Muslim, l’uomo numero uno in Rojava, l’esponente di punta del PYD, il più grande partito politico kurdo-siriano. E come in ogni conflitto, abbiamo assistito all’esodo di migliaia di profughi che scappano dalla guerra.
Le decine di persone incontrate e gli innumerevoli chilometri macinati mi hanno fatto riflettere e vivere il momento storico di cambiamento e creazione del nuovo Rojava. Un nascita militare politica ed ideologica. Quello che il partito di maggioranza e il braccio militare chiedono è uno spazio dove i kurdi possano rispettare la propria legge, parlare la propria lingua e avere l’indipendenza economica. Per questo le milizie dello YPG (People’s Protection Units) combattono lungo i confini immaginari della area per difendere le posizione sotto gli attacchi degli islamisti. Dalla primavera i gruppi armati islamici di Jabat al Nusra e di ISIS (Islamic State of Iraq and Al-Sham), hanno cercato di allargare la loro zona di controllo ed espugnare l’area di al-Quamishi di Amuda e di Ras al Ayn. Conquiastando questo tratto di frontiera con la Turchia, avrebbero controllato il valico verso un paese apparentemente amico. Inizialmente hanno avuto  la meglio, ma ad agosto lo YPG con dure controoffensive ha riconquistato le città contese e la frontiera delimitando con trincee il territorio controllato. Vista come una lotta di liberazione contro i soldati di Jabat al Nusra e ISIS, la popolazione appoggia con tutte le forze lo YPG e la nuova polizia kurda degli Asays. Con decine di check point gli Asays controllano chi entra e chi esce da ogni villaggio mentre l’esercito di protezione combatte per il popolo lungo i confini.

Dopo qualche giorno passiamo i check point appena rallentando e salutando con un cenno gli Asays di vedetta. Oramai conosciamo l’intera l’intera l’area di Derek e decidiamo di muoversi verso il fronte più occidentale di Serykaney (Ras al Ayn), a ridosso del confine turco. Durante il tragitto, si intravedono le bandiere prima rade, poi sempre più fitte, dell’esercito di Assad. Il Governo è ancora presente in Siria e non manca nemmeno nella zona kurda. Prima della guerra le grandi risorse petrolifere erano destinate a Damasco ed il regime era l’unica legge anche in Rojava. Ora i rubinetti sono chiusi e i militari di Assad praticamente scomparsi. Tranne che ad al-Quamishi dove hanno ancora dei check point e controllano il traffico mentre lo YPG giorno dopo giorno ne fa sempre di più la sua base. Oramai distrutto da una guerra che ha lacerato il paese, anche Assad deve scendere a patti più o meno ufficiali fuori e dentro i propri confini. Né Bashar né suo padre Hafiz  hanno mai amato i kurdi ma in un momento dove gigantesche risorse vengono spese quotidianamente per vincere la guerra e scacciare gli le milizie jidaiste, aprire un altro fronte ad est risulterebbe controproducente. Soprattutto se anche i kurdi combattono contro Jabat al Nusra e contro ISIS. Quindi vige una sorta di accordo informale di pace apparente che per ora risparmia ai kurdi i bombardamenti aerei dei MIG e al regime un problema da risolvere. Nonostante l’accordo nessuno si fida del nemico.
Durante l’intervista a Salim Muslim, diventato martire dopo avere perso suo figlio Servan il 9 ottobre  ucciso da un cecchino di al-Nusra, gli chiedo proprio come può fidarsi di chi fino a ieri gli ha sparato contro e non ha mai riconosciuto l’etnia kurda. Senza bisogno di interprete e guardando dritto in camera mi conferma come questa guerra sia diventata sporca, si sia trasformata e non abbia più nulla a che vedere con la lotta per la libertà. Salim Muslim è un uomo che ha appena perso il proprio figlio mentre lottava per la liberazione del paese e allo stesso tempo è la guida politica più influente. Sempre più seriamente prima di andare via mi risponde alla domanda, in modo diretto e schietto: “Come facciamo ad aessere amici di chi fa affari con i nostri nemici? “