La Guerra degli ultimi
Turalei, South Sudan // June 2012
Fabio Bucciarelli per il Fatto Quotidiano
Turalei, il villaggio nel cuore del Warrap State si sveglia al ritmo di tamburi, una domenica mattina sotto l’asfissiante sole africano. Centinaia di Dinka, vestiti a festa si presentano al cospetto del Signore bianco vestito da prete. Visi tatuati su corpi longilinei, i Dinka, il gruppo etnico con maggiore influenza nel nuovo Sud Sudan, si ritrova sotto il secolare albero in attesa di una parola di conforto.
La folta vegetazione dona un po’ di ombra ai fedeli, mentre due batussi con gonnellino giallo su pantaloni psichedelici mimano un combattimento con lance e scudi improvvisati: danno così inizio alle danze.
Entrando nel recinto fatto di canne di bambù con nere croci disegnate, prendo posto in prima fila. Non che io sia particolarmente fedele, ma Isaac mi ha riservato un posto d’eccezione. Sento il peso di migliaia di profondi occhi neri addosso. Forse perché sono l’unico bianco all’interno della comunità Dinka o forse perché impugno saldamente la mia macchina fotografica in attesa dell’inizio dello spettacolo. Fa caldo e l’aria diventa irrespirabile: è come bere una tazza di caffè bollente tutta di un fiato. Mi guardo intorno, ed improvvisamente, mi sento come a casa. Ci sono tutti, tutti quelli delle puntate precedenti di Turalei. Ora mi riconoscono e mi ricordano con gli occhi il nostro primo incontro. C’è Josef, il piccolo keniota dal grande cuore, il responsabile dei progetti dell’unico ospedale con capacità chirurgica nel raggio di 200km. Il suo piccolo viso tondo viene riempito dal sorriso ogni qual volta mi dice “noi africani siamo famosi per percorrere distanze inimmaginabili a piedi per raggiungere il nostro destino”. C’è Rose, ed anche lei lavora all’interno della struttura gestita dalla ONG italiana CCM. Una piccola oasi nella sterpaglia africana. Passeggiando fra le capanne di fango di Turalei mi viene quasi da pensare che la gente aspetti di avere qualche acciacco per mangiare un piatto di ugali.
Ci sono anche Nur Kul Biar e Den Angui venuti dalle baracche del campo returnees vicino Turalei. Refugees, IDP – Internal Displaced People – e returnees sono tutti i senza casa che affollano la zona di frontiera con il Sudan. L’unica differenza che li contraddistingue è il senso del loro pellegrinaggio, la ragione per cui sono stati cacciati dalla loro terra. I primi, forse i più conosciuti, vagano da uno stato all’altro fino a dimenticare le proprie origini. Gli IDP sono profughi all’interno del loro stesso stato. I conflitti fra Dinka e Nuer li ha scacciati dalla loro terra. Loro difendono le proprie origini. Gli ultimi, i returnees, sono i profughi di ritorno, emigrati decadi fa dal Sud Sudan verso le zone più ricche del nord, quelle di Khartum. Lì hanno costruito la loro famiglia, la loro vita, ma ora per colpa dell’incalzante guerra fra i due stati, sono stati rimpatriati. Loro sicuramente ricordano le proprie origini. Den Angui non voleva ritoranre, e l’esercito di Khartum gli ha sparato. Un colpo di kalashnikov al petto. Il suo angelo l’ha tenuto in vita, ma gli ha fatto cambiare idea ed adesso si ritrova con i più dei 5000 returnees nelle tende senza tetto. Non ricorda quanti anni ha, sa solo che nel 1988 è emigrato per la prima volta e nel 2012, probabilmente per l’ultima.
Ora anche Den Angui sorride e canta, quando Father Juanuz prende la parola per presentare il loro ospite, un giovane prete proveniente da Rumbek. Al suo fianco, l’immancabile traduttore, un eletto che non ha bisogno di donare i pochi spiccioli nel sacchetto giallo dell’elemosina per stringere la mano allo straniero seduto sul trono vicino all’altare. I dinka in processione per salutare lo straniero. E così anche la possente mano di Den Angui sprofonda nel sacchetto color canarino prima di venire stretta dal re di turno. Per la prima volta vedo un returnees fare elemosina ad un re cristiano. Ma d’altronde, anche questa è Africa.
La folta vegetazione dona un po’ di ombra ai fedeli, mentre due batussi con gonnellino giallo su pantaloni psichedelici mimano un combattimento con lance e scudi improvvisati: danno così inizio alle danze.
Entrando nel recinto fatto di canne di bambù con nere croci disegnate, prendo posto in prima fila. Non che io sia particolarmente fedele, ma Isaac mi ha riservato un posto d’eccezione. Sento il peso di migliaia di profondi occhi neri addosso. Forse perché sono l’unico bianco all’interno della comunità Dinka o forse perché impugno saldamente la mia macchina fotografica in attesa dell’inizio dello spettacolo. Fa caldo e l’aria diventa irrespirabile: è come bere una tazza di caffè bollente tutta di un fiato. Mi guardo intorno, ed improvvisamente, mi sento come a casa. Ci sono tutti, tutti quelli delle puntate precedenti di Turalei. Ora mi riconoscono e mi ricordano con gli occhi il nostro primo incontro. C’è Josef, il piccolo keniota dal grande cuore, il responsabile dei progetti dell’unico ospedale con capacità chirurgica nel raggio di 200km. Il suo piccolo viso tondo viene riempito dal sorriso ogni qual volta mi dice “noi africani siamo famosi per percorrere distanze inimmaginabili a piedi per raggiungere il nostro destino”. C’è Rose, ed anche lei lavora all’interno della struttura gestita dalla ONG italiana CCM. Una piccola oasi nella sterpaglia africana. Passeggiando fra le capanne di fango di Turalei mi viene quasi da pensare che la gente aspetti di avere qualche acciacco per mangiare un piatto di ugali.
Ci sono anche Nur Kul Biar e Den Angui venuti dalle baracche del campo returnees vicino Turalei. Refugees, IDP – Internal Displaced People – e returnees sono tutti i senza casa che affollano la zona di frontiera con il Sudan. L’unica differenza che li contraddistingue è il senso del loro pellegrinaggio, la ragione per cui sono stati cacciati dalla loro terra. I primi, forse i più conosciuti, vagano da uno stato all’altro fino a dimenticare le proprie origini. Gli IDP sono profughi all’interno del loro stesso stato. I conflitti fra Dinka e Nuer li ha scacciati dalla loro terra. Loro difendono le proprie origini. Gli ultimi, i returnees, sono i profughi di ritorno, emigrati decadi fa dal Sud Sudan verso le zone più ricche del nord, quelle di Khartum. Lì hanno costruito la loro famiglia, la loro vita, ma ora per colpa dell’incalzante guerra fra i due stati, sono stati rimpatriati. Loro sicuramente ricordano le proprie origini. Den Angui non voleva ritoranre, e l’esercito di Khartum gli ha sparato. Un colpo di kalashnikov al petto. Il suo angelo l’ha tenuto in vita, ma gli ha fatto cambiare idea ed adesso si ritrova con i più dei 5000 returnees nelle tende senza tetto. Non ricorda quanti anni ha, sa solo che nel 1988 è emigrato per la prima volta e nel 2012, probabilmente per l’ultima.
Ora anche Den Angui sorride e canta, quando Father Juanuz prende la parola per presentare il loro ospite, un giovane prete proveniente da Rumbek. Al suo fianco, l’immancabile traduttore, un eletto che non ha bisogno di donare i pochi spiccioli nel sacchetto giallo dell’elemosina per stringere la mano allo straniero seduto sul trono vicino all’altare. I dinka in processione per salutare lo straniero. E così anche la possente mano di Den Angui sprofonda nel sacchetto color canarino prima di venire stretta dal re di turno. Per la prima volta vedo un returnees fare elemosina ad un re cristiano. Ma d’altronde, anche questa è Africa.